In questi giorni la notizia del decesso di Valentina Miluzzo (a seguito dell’aborto spontaneo di due gemellini morti, al quinto mese di gravidanza, in un ospedale catanese) ha infiammato il dibattito, sui social e non, riguardo l’obiezione di coscienza. Certamente l’obiezione di coscienza – prevista dalla legge 194 del 1978 – è uno degli aspetti più controversi della legislazione italiana in materia di interruzione volontaria di gravidanza, in quanto mette in discussione l’effettività dello stesso diritto ad abortire delle donne, in modo legale, gratuito e sicuro.

Ma non su tale – seppur importantissimo tema – vorrei indirizzare la mia riflessione odierna. Vi è infatti un dettaglio di questa complessa vicenda che mi ha colpito, nonostante sia rimasto ai margini della narrazione mainstream: Valentina si è sottoposta a trattamenti di procreazione medicalmente assistita per restare incinta. Se tali tecnologie, da una parte, migliorano la vita delle donne (ad esempio liberandole da alcune «ansie» come «l’orologio biologico»; tanto che Google e Apple, per non ostacolare produttività e carriera delle proprie dipendenti, hanno investito nella congelazione dei loro ovuli), dall’altra parte, invece, proprio grazie a queste tecniche, l’imperativo sociale, secondo il quale le donne sono destinate a diventare madri, è investito di una nuova forza.

Attenzione: nessuno mette in dubbio l’autodeterminazione di coloro che scelgono di procreare, accettando i rischi connessi ai trattamenti artificiali. Mi limito a osservare che tale desiderio di maternità trova terreno fertile nella nostra società, che incoraggia ancora oggi noi donne, in modo più o meno esplicito, a seguire il nostro «destino biologico». Ciò che vorrei evidenziare, in altre parole, è che diventare madre non è solo una scelta personale ma anche una decisione che risponde esattamente alle aspettative che la società ha su di noi (e i nostri corpi): dalle istituzioni governative (pensiamo, in ultimo, al «fertility day»), morali (pensiamo alla mistica della maternità dietro all’iconografia della «natività» nella religione cattolica) ed economiche (il business finanziario che vi è dietro le tecniche di procreazione medicalmente assistita). Possiamo dire che in egual modo si approvi la scelta di chi non vuole avere figli? Certamente no. La realizzazione di un desiderio per le donne, quando non coincide con gli interessi del sistema, non trova cittadinanza e accoglimento, ma pesantissimi ostacoli da superare.

In questo senso è esemplificativo il caso dell’aborto. Oltre alle difficoltà legate a una insoddisfacente applicazione della legge – rilevata anche in sede sovranazionale, in ultimo, dal Comitato europeo dei diritti sociali nel caso Cgil v. Italia dell’aprile 2016 – chi intende interrompere una gravidanza deve ancora scontrarsi con una serie di barriere morali e sociali, che stigmatizzano coloro che scelgono di abortire.

È come se sulle donne gravasse un debito nei confronti della collettività: partorire e crescere un figlio. Un debito che se tradizionalmente poteva estinguersi per impossibilità dettate dalla presenza di ostacoli «oggettivi» alla procreazione (assenza del partner per le «zitelle», sterilità, menopausa), oggi invece permane illimitato, grazie alle tecnologie riproduttive che permettono anche alle donne single, sterili, in menopausa di coronare il «loro» sogno di diventare madri.

Sono cambiate le modalità e i tempi di adempimento, quindi, ma l’oggetto di questa obbligazione a carico delle donne, sorta per legge «naturale» alla loro nascita, resta immutato (al prezzo, s’intende, di un aumento dei rischi sulla salute e la vita delle stesse).

E allora, mi domando: non vi è alcuna co-responsabilità morale di questa collettività per i danni alla salute (e talvolta alla vita stessa, come la cronaca recente ci ha dimostrato) delle donne che si sottopongono a procedure mediche per diventare madri? Dopotutto queste donne non si sono adeguate anche a ciò che il sistema chiedeva loro?