Le immagini hanno il potere di mettere in dubbio se stesse e di regalare dubbi atroci negli altri. Sono migliaia di anni che gli uomini le usano e le producono, per indicare, comunicare, esprimere, eppure sembrano fatalmente nascondersi. Sembrano un gioco capriccioso degli dei, che le hanno regalate agli uomini insieme alla vista e insieme a una parziale facoltà di controllo, ma non hanno dato loro il bugiardino: a meno che un nostro antenato non l’abbia subito fatto in mille pezzi, come gli uomini fanno da sempre con ogni regolamento. La cosa strana delle immagini è che ancora suscitino questi tipi di pensieri smarriti e un po’ balordi, quegli sguardi vuoti e come privati di ossigeno.
Lo stesso atteggiamento di panico non capita quasi mai col linguaggio verbale. Si crede di saperlo controllare ma non si sottovalutano le sue immense ambiguità, le sue grandi stravèrie, i suoi molteplici usi. Si usano i termini come se fossero applicabili alle cose, alle relazioni, ai momenti della vita, ma si conoscono le asprezze delle parole. Non è così semplice tramite le parole resistere e orientarsi nel mondo, però davanti all’immagine è il panico. Subito si cerca il referente mnemonico o visuale, e una volta trovato, fine del gioco.

Un percorso difficile

Quando si pensa all’incapacità di usare segni e segnali, parliamo di analfabetismo mai di animaginismo. Quando notiamo smarrimento davanti ai simboli culturali parliamo di analfabetismo culturale mai di animaginismo culturale. Una parola che neppure esiste, eppure quanto sarebbe appropriata. Così l’immagine non sembra mai appartenere alla cultura. O è immagine naturale (visione, cosa visibile, tipo l’occhio o il panorama) o è arte (sguardo e quadro), tanto per semplificare. Eppure si è sempre dentro le immagini, con le immagini, tramite le immagini, anche quando non fanno certo arte e neppure ci provano. Rudolf Arnheim aveva spiegato quanto fosse necessaria l’educazione all’immagine. Che non era un saper vedere da intenditori bensì autonomia dello sguardo. Vedere come dire, leggere come fare. Ma l’educazione visuale si ferma alle scuole elementari, poi subito è accademia, o museo. Si finge che l’immagine non sia mai servizio ma sempre evento.

Responsabile è stata l’informazione. Che si è impossessata di ogni scopo dell’uso dei segni. Le immagini le ha prese ed usate, e senza tanti complimenti ha detto che erano documenti, realtà, evidenze. Del resto ha fatto la stessa cosa col linguaggio verbale. L’ha costretto a fare riferimento ai fatti, a farci credere nel palesamento. Il linguaggio ancora crede di essere cultura, come quelli che non si accorgono che i loro vestiti hanno gomiti e ginocchia logore. Ma per le immagini no, questo è negato: le immagini non dicono, solo mostrano. Non c’è spazio per l’immagine della cultura c’è solo immagine della natura.

Naturalmente le cose non stanno e non sono mai state così. Immagine e linguaggio sono sempre stati profani. Dell’immagine non c’è un mito della caduta del significato unitario, come racconta il mito della torre di Babele: dispersione e incomprensione tra le lingue. L’immagine, senza mito della caduta, resta linguaggio universale. Solo una nicchia operativa ha sempre salvaguardato e sorvegliato la varietà dell’immagine, preoccupandosi sia di cambiare il modo di vedere sia di pensare gli strumenti per replicarle e diffonderle. Una grande nicchia che si chiama arte. Solo che non è più una nicchia e le immagini circolano e si riproducono molto al di fuori di un qualsiasi contesto che possa essere definito artistico.

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Fisiologia e ideologie

È su questo sfondo che sembra voler intervenire un libro di spirito enciclopedico e ordinatore come Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi (Einaudi, pp.290, euro 28). L’hanno scritto Andrea Pinotti e Antonio Somaini, che provengono da studi di estetica: il primo con interessi, anche storiografici, per la teoria della visione negli ambiti della filosofia e della critica d’arte; il secondo con interessi storico-teorici per le arti neotecnologiche del Novecento, dal cinema ai nuovi media. Il loro presupposto è che gli oggetti della cultura visuale sono sempre immagini imbevute della propria ragion d’essere storica, fatta tanto di ideologia quanto di sensitività, e che in quanto tali sono indistinguibili dall’esperienza fisiologica dell’immagine.

Se la percezione visiva cambi o evolva in relazione alle nuove tecniche di visione e al cambiamento dei modi della produzione di visibilità, nello spazio di indagine della cultura visuale questo non sarebbe comprensibile né pertinente. Quel che conta è comprendere il sistema (o anche i sistemi paralleli) entro cui l’immagine è fruita e acquista significato, e come tale, cioè immagine significativa, riesce a funzionare e a mediare tra differenti soggetti. Possedere una cultura visuale, in altri termini, è possibile se ci si convince che lo sguardo (una parola chiave di tutto il testo che assume diverse funzioni esplicative) non è solo un recettore naturale ma è anche uno strumento con una propria memoria culturale, che usa una propria lingua (dovremmo dire, mantenendo la metafora fisiologica, un proprio occhio, ma anche qui il linguaggio ordinario mancherebbe di mordente), che ha proprie finalità di ordine personale e sociale.

L’altro presupposto del libro, e questo appartiene alla storia degli studi di cultura visuale, è che si possa fare cultura con qualsiasi tipo di immagine e con qualsiasi tipo di sguardo, che si possa cioè prescindere da ogni intenzionalità produttiva e da ogni ragione d’uso delle immagini. In questo modo l’agibilità degli studi di cultura visuale è molto ampia: non è storia dell’arte ma può includere oggetti d’arte; non è semiotica ma può occuparsi di comunicazione e di struttura dei dispositivi formali; non è fisiologia né neurologia ma può inglobare teorie dell’esperienza; non è storia della tecnica ma riesce a integrarsi con l’analisi degli usi tecnologici; non è filosofia ma non recede davanti all’ontologia né all’epistemologia. Gli studi di cultura visuale sono multidisciplinari, usano strumenti di analisi e metodi di indagine complementari e non omogenei, perché il loro compito è quello di dar conto dei discorsi e degli usi che si fanno sulle immagini e con le immagini, quello cioè di spiegare o descrivere le pulsioni emozionali come le tensioni ideologiche.

Tra scienza e enciclopedia

Nel libro si leggeranno diversi esempi di studi che procedono secondo una metodologia aperta e multidisciplinare come la si è qui rapidamente descritta. Ma è bene sapere che hanno un valore esemplare, nel senso che la preoccupazione maggiore dei due autori è quella di dare un volto a una disciplina che ha molte applicazioni e molte sfaccettature, e che per molti anni è stata sostanzialmente dispersa e disseminata. Lo si vede dalla prima metà del libro, dedicata ad una complicata e ricca ricognizione storica, che da una parte individua diverse origini nei primi decenni del Novecento e diverse sistemazioni teoriche negli ultimi decenni e, d’altro canto, cerca di mantenere distinti campi di riflessione sull’immagine che hanno avuto una propria autonomia.

È anche qui che viene riconosciuto il ruolo centrale avuto, nella genesi di questo apparato di studi, da W. J. T. Mitchell, con il suo lavoro di revisione del termine Icon, e da Hans Belting, con la sua scienza dell’immagine (Bildwissensschaft), entrambi consapevoli della necessità di una apertura ed espansione dei discorsi sulle immagini. E lo si vede anche nella seconda, dove l’istinto enciclopedico, giustificato dalla necessità di rendere disponibile un’ampia mappatura dei tanti spazi in cui l’impostazione teorica degli studi visuali è riuscita a collocarsi, emerge con particolare sistematicità. Certo non sfuggono né vengono dissimulate le loro preferenze e anche le loro opzioni, che non sono sempre sovrapponibili: tra le varie vanno ricordati Walter Benjamin, riconosciuto come il vero pioniere degli studi intermediali; Marshall McLuhan, quale primo «idéologue» e filosofo della cultura dei media; George Didi-Huberman, che negli ultimi anni si è mosso con grande capacità sul terreno della culturalizzazione dell’immagine.

Sì perché nonostante l’esigenza prima di interpretare e documentare in modo quasi impersonale il grande campo delle immagini, c’è spazio anche per far emergere qualche predilezione tematica. Questo avviene in maniera più estesa nel capitolo 3, firmato dal solo Pinotti, che si dimostra affascinato da un ragionamento intorno al potere dell’immagine, che non esclude una temeraria inclusione animistica: non si tratta di dare all’immagine un potere magico ma di dare ad esse un potere impersonale che prescinda dall’intenzionalità autoriale e che respinga qualsiasi malinconia romantica e in genere moderna della possibilità di un rapporto esclusivo e originario col significato dell’immagine.

Non solo un divertissement

Apparentemente più tecnico ma ugualmente filosofico è anche il capitolo 5, di sola mano di Somaini, che affronta il tema della definizione dell’immagine (alta e bassa definizione) di cui si coglie sia l’importanza storica, l’aver cioè contribuito a svelare il mito della uniformità/completezza dell’immagine, sia quella performativa attuale, cioè di dividere i contesti di usabilità delle immagini rispetto ai valori di fiducia e credibilità.
Bisogna concludere un discorso appena aperto, e che si spera questa sistemazione faticosa fatta da Pinotti e Somaini porti in modo definitivo al chiaro. Non certo a sistema né a una completa definizione, cosa che urterebbe coi principi stessi in cui gli studi di cultura visuale hanno preso vigore e continuano a essere vitali.

In Italia si sono manifestati meno che in altri paesi semplicemente perché non sono stati aiutati né nei consessi accademici né in quelli editoriali, mentre in realtà sono ugualmente prolifici e consistenti da anni. Sia come sia, non bisogna smettere in nessun modo di dare il giusto tributo alla diversità che caratterizza la riflessione e l’uso delle immagini nei diversi settori dei saperi, umanistici o meno, e nelle diverse modalità di svago, narrazione e uso delle immagini. Così come si potrebbe avere la sensazione che gli studi di cultura visuale possano svolgere verso le immagini un ruolo non dissimile da quello che la retorica svolge verso il linguaggio