Non è finita la storia d’amore tra tanti compagni e compagne e le idee, la tradizione, la cultura della sinistra. Per tanti la passione è ancora viva; ha resistito alla scientifica opera di denigrazione messa in atto quantomeno dalla fine della II guerra mondiale, alle repressioni, alle intimidazioni, all’isolamento; ha vacillato davanti alle catastrofi del XX secolo, incluse quelle dei regimi socialisti; si è piegata sotto i colpi della crisi della politica, dell’imbarbarimento rozzo e brutale della destra berlusconiana e leghista.

Ma non è una storia finita, è una storia sconfitta. Perlomeno sinora sconfitta. Il punto però è: si può essere sconfitti, ma non per questo essere dalla parte del torto. Né essere sconfitti nel presente ed esserlo per sempre, come ci insegna la storia, che talvolta, coi suoi tempi, rovescia posizioni che sembravano assolutamente consolidate.
Movimenti, antagonismo, ribellioni, lotte rinascono incessantemente come la fenice dalla sua cenere. Pur indeboliti, divisi, frammentati, pur con un bagaglio teorico ancora incerto e inadeguato, coloro che appartengono alla sinistra continuano a riconoscersi orgogliosamente in una prospettiva di emancipazione collettiva dal sistema di potere capitalistico, nonché in scenari di uguaglianza e giustizia sociale.

Forse Ernst Bloch ci può soccorrere quando definisce l’utopia -e lui pensava a quella comunista- come «il non ancora», come orizzonte di senso della storia degli uomini e delle donne, che di fronte alle brutali ingiustizie perpetrate e impunite orienta verso «l’oltrepassamento» del presente, verso «il nuovo, come mediato nel presente in movimento, sebbene per essere posto in libertà il nuovo sia estremamente esigente sul fatto che lo si voglia».

Questo d’altro canto è il movimento reale della storia reale: quantunque la repressione poliziesca e l’omologazione culturale siano andate a buon fine, il “disordine” istituito dal dominio del grande capitale, in cui ogni forma di vita è ridotta a merce e al suo “valore di scambio”, non può perpetuarsi oltre le sue macerie.

A Ventimiglia “i dannati della terra”, sebbene per un attimo hanno fatto intravvedere cosa potrebbe succedere ed un brivido (“un fantasma”) ha percorso le schiene dell’Occidente. Ci sono idee, seppure momentaneamente sconfitte, che tanti di noi continuano a ritenere giuste: per tutte la prospettiva strategica di alternativa un mondo in cui sia rovesciata la soggezione allo sfruttamento del capitale, sostenuto dai suoi istituti ipocritamente democratici, dalle sue “casematte”, dalle cittadelle della costruzione del consenso.

Ma anche la convinzione che l’egemonia del capitale, pur totale è sempre raggiunta all’interno di un rapporto mobile, in cui i rapporti di forza possono essere spostati a favore degli oppressi. Sii obietterà che la nostra è una storia di sconfitte e oggi respiriamo insieme con l’aria la disfatta, la disgregazione, la disarticolazione. Ma non per questo deve andarci bene qualsiasi battito d’ali. Abbiamo la responsabilità morale di essere unitari e inclusivi, ma esigenti al contempo, consapevoli che ad ogni ulteriore fallimento corrisponde un esiziale indebolimento, come per il naufrago, che ad ogni nuova bracciata sente venirgli meno le forze.

La strada da battere per la costruzione dell’unità della sinistra non può prescindere dalla sua costruzione dal basso, perché questo processo o è mosso dal basso o non si sviluppa, perchè o è il movimento reale che si afferma con forza o non ci sono sommatorie di ceti dirigenti che tengano.

Questa non è una storia d’amore tra due individualità, ma è la scommessa che gli uomini e le donne, i padri e le madri, i compagni e le compagne, gli amici e i fratelli, accogliendosi reciprocamente e incontrandosi, costruiscano quell’”ontologia dell’essere sociale”, per dirla con Lukacs, quell’”accumulazione ontologica” che può condurre alla riappropriazione della piena umanità, sinora calpestata e offesa. Questa rimane una grande storia d’amore.