Abbozzando il progetto per una utopica Accademia, William Burroughs, che disprezzava l’insegnamento così com’era impartito nelle università americane, accennò all’idea di introdurre nelle aule una scrittura geroglifica semplificata: «Lo scopo è il decondizionamento delle reazioni verbali automatiche tramite l’insegnamento a pensare per immagini. Lo studente impara a guardare prima di parlare. Quando si sarà appreso a usare le parole invece di essere usati da esse, diventerà facile dominare ogni altra materia».

Per l’autore del Pasto nudo il linguaggio non era un codice naturale, né un amnio avvolgente e neppure era l’aria condivisa in cui ci muoviamo tutti costruendo il senso, ma un avversario subdolo da disarticolare e abbattere. Un virus che trova un punto di equilibrio con l’organismo che ha invaso e il cui unico scopo è l’autoreplicazione di se stesso, trascinando l’uomo in un gelido ingranaggio di risposte automatiche. Tra il 1967 e il ’69, a Tangeri e a Londra, Burroughs scrisse I ragazzi selvaggi (Adelphi, traduzione di Andrew Tanzi, pp. 195, euro 17,00), che uscì poi nel ’71 e rientrava in una più ampia trilogia, assieme a Porto dei santi e Sterminatore! Ma come già era accaduto in altre occasioni il libro esibiva una situazione porosa, osmotica: Burroughs raccoglieva, infatti, le routines (i tratti testuali frutto delle sue sessioni creative) in uno scartafaccio originario che poteva arrivare anche a contare 600 pagine e diveniva poi, tramite un metodo di selezione in parte aleatorio, la fonte di due o tre libri diversi. Anche questa procedura ha fatto di Burroughs uno dei grandi sovvertitori del romanzo, non solo dunque l’uso spregiudicato e ormai proverbiale di procedimenti come il cut-up e il fold-in; la sua vocazione implacabile a spezzare le linee di associazione verbale lo ha reso capace come pochi altri, infatti, di portare «con le parole guerra alle parole»: solo se il linguaggio saprà andare contro se stesso, solo se saprà torcere il collo all’ordine pre-scritto, alle determinazioni già costituite in discorso, troverà la via verso una sua verità.

Così il caso entra da primo attore nelle vicissitudini della scrittura, e l’alterazione dell’ordine, lo scompaginamento dei piani formali e percettivi, uniti a un’idea di scrittura come estensione verbale del corpo (già in atto fin dagli anni cinquanta nella stesura di Queer), creano l’enfasi fredda e la tensione aggressiva che sono peculiari del progetto dello scrittore di St. Louis.
L’insieme dei testi che compongono I ragazzi selvaggi, pur nella aleatorietà che fonda molti dei percorsi di Burroughs, è decisamente coerente. I nuclei delle sue fantasie si compongono attorno al sesso e alla distruzione, in un nuovo Medioevo precipitato nel futuro, dove una specie mutante di giovani rivoluzionari omosessuali («non sono per niente umani sono più simili a piccoli fantasmi maligni») compie scorrerie dal Maghreb all’Europa al Sudamerica e terrorizza spietatamente la «macchina del sistema», comunicando e scambiandosi informazioni e droghe attraverso una rete globale.

Controllo e sconvolgimento della coscienza sono ancora una volta i due poli fra cui si muove la mente di Burroughs. «L’estate agitata del 1988. Col pretesto del controllo sul traffico di droga nel mondo occidentale hanno istituito stati di polizia… la programmazione precisa del pensiero dei sentimenti e delle impressioni sensoriali apparenti permette agli stati di polizia di mantenere una facciata democratica dietro alla quale denunciano a gran voce come criminali, pervertiti e drogati tutti quelli che si oppongono alla macchina del controllo».

Nello «strazio erogeno» di un vorticoso susseguirsi di orgasmi, copulazioni e orge lancinanti, che formano il focus centrale del libro, si incardinano alternativamente il racconto della lotta dei ragazzi selvaggi e le sperimentazioni di Burroughs: non tanto cut-ups così come erano stati utilizzati in Pasto nudo, ma montaggi lampeggianti di visioni e suggestioni sfuggenti, quasi tendenti idealmente al pittogramma, intitolati Il peep-show della sala giochi («Stelle vecchie spruzzano la casa vuota giocattoli lontani. Spiriti tristi e sussurranti si fondono in cocchieri e animali onirici, foschia dal lago, foto di famiglia sbiadite»).
Ma poi con un taglio netto si passa all’accelerazione estrema delle immagini portanti: «Il nostro obiettivo è il caos totale», dicono i ragazzi selvaggi. «Intendiamo schiacciare la macchina poliziesca ovunque, distruggere ogni sistema verbale dogmatico. Il nucleo familiare e tutte le sue appendici cancerogene sotto forma di tribù, paesi, nazioni. Non vogliamo più sentire alcun linguaggio familiare, linguaggio materno, linguaggio paterno, linguaggio da sbirro, linguaggio da prete, linguaggio di campagna e nemmeno linguaggio di partito. Per dirla alla buona di cagate ne abbiamo sentite abbastanza».

La distruzione è la musa dei ragazzi selvaggi. È l’utopia imperterrita, nel ’69 come adesso, di una innocenza violenta: scattanti come animali, «ragazzi-gatto, ragazzi-serpente», hanno una resistenza formidabile: sono cannibali, lottatori nudi che si spostano su biciclette alate, pattinatori nelle periferie deserte, oppure «sciamani che cavalcano il vento», «ragazzi che invocano le locuste e le zecche, ragazzi del deserto timidi come piccole volpi, ragazzi onirici che si vedono i sogni a vicenda».
E in questa tensione utopica di Burroughs, del tutto individuale, sopravvivono le energie sovversive della festa nell’antichità, dei culti dionisiaci o dei Lupercalia: «Gli antichi Dei fallici della Grecia e gli assassini di Alamut aleggiano ancora tra i colli del Marocco come tristi piloti in attesa di recuperare i sopravvissuti». L’intensità della scrittura che insegue una mimesi del delirio si basa su una procurata velocità di suggestioni, creando un rumore percettivo, un affastellarsi di stimoli da cui si stacca a volte la violenza iperbolica di un dettaglio, un odore pungente e di potente intimità, un corpo posseduto voracemente e preda del deliquio. Come su una pellicola danneggiata, un film virato in acido, si accampano le visioni sfocate di una sorta di cena di Trimalcione coniugata al futuro, con tutte le possibili attrazioni e piaceri, e si affollano personaggi che emergono e si inabissano di continuo, personaggi-segno virtualmente intercambiabili e obbedienti solo a un principio di metamorfosi («Ho mille facce e mille nomi. Sono tutti e nessuno. Sono me stesso sono voi. Sono qui lì davanti dietro dentro fuori. Sono presente sono assente»), pure funzioni allucinate del desiderio e della scrittura: Tio Mate (che a detta di Burroughs stesso avrebbe potuto figurare meglio in Sterminatore!), il Ragazzo di San Francisco e il Bambino Morto. E il profetico colonnello Macintosh impegnato a combattere sciami urlanti di ragazzi selvaggi: «I giovani sono una specie aliena. Non sarà con la rivoluzione che ci rimpiazzeranno. Ci dimenticheranno e ci ignoreranno finché non esisteremo più».

Ne viene fuori la saturazione costante di una scrittura dell’eccesso che nel tentare di dare corpo (non senza ironia) ai lampeggiamenti inauditi, alle convulsioni di orgasmi che arrivano alle stelle, alla perdita calcolata di ogni individuazione, tradisce forse il suo tormento più nascosto: non la difficoltà di accedere a stati della coscienza normalmente inaccessibili con i mezzi ordinari e ordinati della percezione (gli stessi che governano ogni trama che si voglia comunicabile), ma la disperazione di non riuscire a entrare veramente nel corpo, a essere il proprio corpo. Non stupisce quindi che in un sogno febbrile, ambientato nell’epoca dei Maya, Burroughs ordisca la fantasia di diventare una sorta di spirito-virus che si insuffla nel corpo di un altro uomo e lo abita.

E dell’utopia della liberazione da ogni condizionamento fa parte anche la rinuncia alle donne e a ogni già-detto, comprese le retoriche dell’amore: l’idea è quella di far partorire ai ragazzi selvaggi dei bambini senza ombelico che per tutta la vita non vedranno mai né sentiranno la voce di una donna, cresciuti dallo Stato, e che cancelleranno la parola ‘mamma’ dalle loro lavagne.

Il progetto di Burroughs è insomma la creazione vertiginosa di una anti-macchina per costringere il linguaggio a deviare ed estendere la coscienza, denunciando la falsità finale degli aut-aut, e la dualità fondativa dei concetti linguistici come truffa. Ma senza cedere a passività misticheggianti. Nel 1971, lo stesso anno dell’uscita dei Ragazzi selvaggi, Burroughs spiegò in un’intervista anche i motivi della sua distanza dai Beat, che pure aveva frequentato. «Non ho mai creduto nella non violenza… Le persone al potere non si autodepongono. Nessuno manda fiori ai poliziotti, se non tirandoli da una finestra e dentro un vaso».