Figlio di Faulkner: così Juan Carlos Onetti dichiarava di voler essere considerato, e forse l’accostamento è fin troppo facile a fronte della estrema complessità che contraddistingue la prosa di questi due mostri letterari. La tentazione sarebbe dunque di cominciare da qui.

Cominceremo invece da Santa María, il congegno ormai mitico che l’uruguayo-bonaerense-madrileño ha messo a punto per scavare crudelmente nelle inutili perversioni di una provincia-mondo e recuperare lì dentro ciò che pochi scrittori possono esibire come ricompensa alla fatica di scrivere. Per esempio, alcuni personaggi immortali come Larsen o il dottor Díaz Gray e le numerose ombre che deambulano sullo scenario santamariano, donne e uomini declinanti su un fangoso viale del tramonto, che sembrano scegliere per sempre la mediocrità sulla riva di un grande fiume marrone il cui nome non c’è bisogno di pronunciare.

Esseri sonnambolici, difficili da fissare entro contorni nitidi – la foto è sempre sfocata –, che compaiono nelle pagine di Onetti in linee cronologiche frammentate e sono considerati dal punto di vista a volte delirante o semplicemente alcolico di diversi narratori. Ma la continuità esiste ed è indicata nella direzione della decadenza e dell’affossamento: tutte le creature di Onetti hanno un passato migliore del presente, soprattutto le donne, che invecchiano ventenni anche quando non fanno le puttane (anzi, se lo fanno resistono meglio), o impazziscono dopo vani tentativi di reggere uomini insignificanti e violenti.

Qual è la chiave dell’esistenza di siffatti personaggi? La lettura dei capolavori letterari che si faceva in America latina negli anni sessanta era molto meno ideologica di quella che si imponeva in Europa, dove per esotismo o eccesso di energia rivoluzionaria repressa, una serie di grandi scrittori di quei paraggi erano visti come parte integrante di un processo che conduceva al sol dell’avvenire. Le opere finivano così per essere spesso interpretate in chiave simbolica o metaforica di una condizione politica e sociale. Quanto a Onetti, si poteva prestare anche lui a letture di questo tipo, perché la scena ricorrente di Santa María sembrava concepita apposta per rappresentare conflitti sociali; ma era di ostacolo il fatto che fosse uno scrittore assai impegnativo sul piano della lingua, dei personaggi, e di una trama che non si snoda mai come un intreccio convenzionale. Né aiutava il pessimismo di cui è inzuppata l’intera sua opera, un pessimismo quasi edonistico nella sua insistenza.

Si è spesso segnalato il debito di Onetti con Roberto Arlt, sia dal punto di vista stilistico che per certe inclinazioni dei suoi personaggi, di frequente maschilisti e violenti, a fuggire da una realtà opprimente e una vita mediocre verso visioni, allucinazioni e fantasie che in fin dei conti li portano alla follia. E, certo, anche qui troviamo le tracce di Faulkner.

Si è scritto pure dell’influenza di Borges, con il quale non ci fu alcuna simpatia personale o letteraria, ma un’affinità di tipo teorico nelle intenzioni di rinnovamento radicale della letteratura latinoamericana già negli anni trenta e quaranta. Sebbene questi due scrittori si pongano stilisticamente agli antipodi (schietto e preciso, chiaro ed esatto l’argentino, labirintico e tortuoso, distruttivo e autodistruttivo l’uruguayo), oggi Onetti ci appare moderno o postmoderno quanto Borges per il rapporto mai scontato che entrambi instaurano fra finzione e realtà.

«Ma non posso scoprire un significato indubbio di tutto ciò e mi stupisco, mi annoio, mi scoraggio. Quando lo scoraggiamento indebolisce il mio desiderio di scrivere – penso che in questo compito ci sia qualcosa di riferibile al dovere, di riferibile alla salvezza – preferisco ricorrere al gioco che consiste nel supporre che non sia mai esistita né una Santa María né un fiume».

In Raccattacadaveri (Sur, traduzione di Enrico Cicogna, pp. 298, euro 16,00) pubblicato per la prima volta in Argentina cinquant’anni fa, il protagonista indiscusso è un bordello, scenario mitologico latinoamericano (che ricorrre in Borges, in Arlt, in Donoso, in Vargas Llosa, in Bolaño), oggetto delle varie disquisizioni e conflitti di indole morale, religiosa, economica, le cui modeste stanze però il lettore sbircerà solo alla fine del romanzo. Lupanare precariamente istallato ai confini del paese, borderline rispetto a una comunità che lo accetta, o finge di accettarlo come riprova di liberalità o, viceversa, lo respinge con violenze e minacce ipocrite; insomma, una calamita di fantasie represse, odi famigliari, vendette, ma anche tenero recipiente di un’umanità tiepida e umida che emerge dai vapori confusi della città – vengono oggi in mente i film di Lucrecia Martel – sacrificale, disincantata e condannata fin dall’inizio a una sconfitta «sin pena ni gloria», e spesso al suicidio.

«Come la faccia di certi morti, il passato si andava mondando dalle impurità, rinnegava le circostanze e i fini, e occupava, docile e rigoglioso, l’aria afosa della stanza da letto, definitivo come un testo di storia, come una leggenda di coraggio, di saggezza e di sacrificio». In quella stanza da letto stava Raccattacadaveri, e cioè Larsen, già protagonista del Cantiere, qui un prosseneta uscito da poco di galera e sconfitto nel suo sogno di aprire nella capitale un bordello di prima qualità con personale giovane alle prime armi, che invece deve ripiegare verso un’attività in provincia in tono minore con professioniste parecchio attempate, da ciò il nomignolo. La storia dell’apertura del locale a Santa María non viene raccontata in modo lineare: il romanzo si apre con l’arrivo in paese di Larsen (nel suo caso è un ritorno), l’ex amante Maria Bonita e altre due donne, la grassa e la bionda, attratte dal sogno imprenditoriale del capo, ma successivamente i tempi del racconto si spezzano e si dissolvono in una specie di eterno presente, un fulcro intorno al quale i diversi personaggi cercano di spiegare se stessi, oscillano e si confondono tra passato e presente, si schierano in merito al postribolo, svelando e nascondendo i propri conflitti e drammi interiori.

Non si può essere d’accordo con Vargas Llosa, che nel libro dedicato a Onetti e nel capitolo dedicato a Raccattacadaveri, vede inspiegabilmente il bordello come un luogo tipico del sottosviluppo, contenitore di tutte le piaghe che si pensano inerenti a quella condizione: maschilismo, violenza, disprezzo per la donna. Qui c’è da distinguere tra forma e contenuto, inutile ricordare l’importanza a volte cruciale del lenocinio nella letteratura europea d’ogni tempo. Il postribolo di Onetti è relativamente povero e sottosviluppato, certo, e la conseguenza indiretta e quasi non voluta della sua inaugurazione è la sfida al paese benpensante e bigotto organizzato intorno al prete Bergner. Ma siamo abbondantemente fuori dal tema del sottosviluppo e dell’intenzionalità politica, questioni che a Onetti non interessavano affatto, non avendo mai accettato di essere frainteso sul significato allegorico della sua opera.

Come controprova, in Raccattacadaveri, ma anche negli altri romanzi di Onetti, la tecnica del racconto appare estremamente complessa; avanti e indietro nel tempo, diverse voci narranti si alternano parlando in prima o in terza persona: tra esse una che non sappiamo mai a chi appartiene, e un’altra che pretende di essere un noi, testimone storico collettivo del paese. Ma è evidente che una tale complessità della narrazione non è il capriccio di uno scrittore «esperimentale», corrisponde piuttosto alle difficoltà e agli smarrimenti affrontati dagli stessi protagonisti di un mondo magmatico: la vita per Onetti è abissale, il suo non è un pessimismo di maniera, anche se in questo romanzo il potere e il trionfo della chiesa potrebbero far pensare a un catastrofismo cattolico che paralizza le persone facendo loro accettare le ragioni del potere. Qui ogni personaggio sembra possedere certe potenzialità o vie d’uscita da un presente insopportabile, e che vengono indagate e messe alla prova dagli altri, ma soprattutto incarna un’impossibilità di fondo che finisce per imporsi condannando l’intera comunità all’insignificanza.

Certo, la nuova edizione di Raccattacadaveri, dopo quella del 1968, meritava una nuova traduzione: altri capolavori latinoamericani dello stesso periodo l’hanno avuta, soprattutto nelle edizioni Sur, mentre qui inspiegabilmente manca; e la revisione della vecchia versione di Enrico Cicogna, datata e piena di errori, non basta per rendere giustizia a uno dei più importanti romanzi in lingua spagnola del ‘900. Un peccato, davvero.