Quando si fanno discorsi generali sulla letteratura greca o latina, spesso ci si dimentica che quel che leggiamo è solo una parte di quanto fu effettivamente scritto. Una piccola parte, talora minima. Per esempio, sono solo trentuno le tragedie superstiti a fronte delle circa 1700 rappresentate ad Atene tra la fine del VI e la fine del V secolo a.C., e di soli tre autori, mentre di altri pur molto onorati in vita come Agatone non abbiamo che una manciata di frammenti più o meno esigui. Si capisce quindi la gioia degli antichisti ogni volta che dalle secche sabbie dell’Egitto riemerge un rotolo di papiro con un testo che si credeva perduto per sempre, più o meno integro. Così fu per la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, che viene spesso citata dalle fonti antiche ma che solo nel 1891 fu possibile leggere davvero, a parte l’inizio perduto, grazie alla pubblicazione da parte di F. Kenyon di quattro papiri conservati al British Museum. Come in tanti altri casi, si trattava di un papiro usato originariamente per tutt’altri scopi: il recto contiene registri di contabilità di un’azienda agricola, databili alla fine del I secolo a.C., mentre è solo sul verso che è scritto il testo aristotelico. Alla prima edizione di Kenyon ne seguirono molte altre tra cui alcune dei filologi allora più affermati come i tedeschi F. Blass e U. Wilamowitz, per un totale di una trentina di edizioni critiche in poco meno che cent’anni. Se grande fu l’entusiasmo per questa scoperta, non mancarono anche reazioni di profondo sconcerto: il francese Mathieu arrivò a parlare della «più grande disillusione del secolo». Ciò che destava perplessità erano sia le differenze di stile rispetto al resto del corpus aristotelico sia anche le incoerenze e oscurità del testo, che per alcuni studiosi rivelavano la scarsa abilità dell’autore come storico, ritenuto a volte un compilatore talora maldestro di fonti diverse. Deluso era anche Wilamowitz, che nel suo ampio studio dedicato a quest’opera, Aristoteles und Athen (1893), concludeva che «Aristotele ha forse perso qualcosa della sua grandezza, poiché non può più essere considerato uno storico».
Critico su questo versante è anche Peter John Rhodes, curatore di questa nuova edizione per la collana della Fondazione Lorenzo Valla (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, traduzione di Andrea Zambrini, Tristano Gargiulo e P.J. Rhodes, Mondadori, pp. 402 euro 35,00). Numerosi i pregi dell’opera, anzitutto il fatto che è la prima edizione critica in lingua italiana; per quanto pregevole, l’edizione curata da Anna Santoni, uscita da Cappelli nel 1991, aveva infatti come destinazione primaria la scuola. C’è poi la notevole ampiezza (quasi duecentocinquanta pagine) e l’aggiornamento del commento, a distanza di più di quarto di secolo da quello, in tedesco, di Mortimer Chambers, uscito a Berlino nel 1990. E c’è naturalmente il fatto che a curarla sia uno dei maggiori studiosi al mondo dell’Athenaion politeia (così suona in originale il titolo), l’autore di un eccellente commento uscito a Oxford nel 1981 che è a tutt’oggi imprescindibile. Rhodes è uno studioso della storia, delle istituzioni e delle fonti, epigrafiche e letterarie, della Grecia classica, molto noto e stimato tra gli specialisti di storia antica; una sua sintesi divulgativa è stata anche tradotta di recente in italiano (Storia dell’antica Grecia, Il Mulino 2016).
L’Athenaion politeia è qualcosa di unico nella letteratura superstite sulle costituzioni, che annovera o testi di filosofia politica come la Repubblica di Platone o opuscoli dal carattere sia descrittivo sia propagandistico come la Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte. Lo scritto aristotelico è invece diviso in due parti nettamente distinte: nella prima si traccia una storia della politeia di Atene, cioè della sua forma di governo, di come si è sviluppata a partire dall’origine che si perde nel mito fino alla restaurazione della democrazia nel 403 a.C, cioè fino all’assetto vigente al momento nella redazione dell’opera (all’incirca il 330). La seconda parte è la migliore descrizione delle istituzioni ateniesi di cui disponiamo, concentrata in particolare sulle magistrature, elettive e sorteggiate, e sui tribunali, tanto originale che lo stesso Rhodes la definisce «opera di grande importanza».
Sulla prima parte invece il suo giudizio non è proprio benevolo: «come storico, l’autore dell’Athenaion politeia era mediocre», incapace di formulare una posizione politica definita e coerente; egli avrebbe seguito fonti divergenti senza riuscire ad arrivare a una sintesi propria. Un giudizio che assieme ad altri elementi spinge Rhodes a ritenere che quest’opera «fu certamente scritta nella scuola di Aristotele ad Atene, ma probabilmente non dallo stesso Aristotele». In realtà le differenze di stile con il resto del corpus, costituito dagli scritti essoterici, cioè riservati alla scuola, si possono bene spiegare con la differente destinazione dell’Athenaion politeia, con tutta probabilità pensato per un pubblico più ampio degli studenti del Peripato; quanto alle poche contraddizioni rispetto alla Politica, si tratta di dati fattuali di limitata importanza, mentre le categorie di pensiero con cui vengono delineate sia la storia politica sia l’articolazione istituzionale sono aristoteliche senza alcun dubbio. Ad esempio gli elogi che Aristotele qui riserva a politici di varia estrazione e orientamento come Solone, Pisistrato o Teramene sono ricondotti da Rhodes alla dipendenza da fonti discordanti sul piano ideologico, ora democratiche ora antidemocratiche o filo-oligarchiche, quando invece essi sono spiegabili con i principi enunciati nella Politica come la preferenza data al bene comune rispetto a quello personale o del proprio gruppo e il rispetto delle leggi, come ha sottolineato Anna Santoni. Insomma, forse il tradizionale metodo della critica delle fonti non è il migliore per cogliere il punto di vista di chi, come Aristotele, pensava che la storia miri al particolare e quindi sia inferiore alla poesia che coglie l’universale; l’importante per lui non era tanto accertarsi se un singolo fatto fosse storicamente fondato, ma se contribuisse a una conoscenza più generale.