L’incubo delle stragi dell’estate 2014, figlie dei bombardamenti aerei e dei tiri di artiglieria, si è ripresentato ieri con tutto il suo orrore quando, al termine delle preghiere islamiche, centinaia di giovani di Gaza si sono lanciati verso vari punti delle recinzioni che dividono la Striscia da Israele. Urlavano slogan a difesa della Moschea di al Aqsa di Gerusalemme. Non avevano armi per minacciare da vicino i soldati israeliani protetti nelle alte torri di cemento armato che presidiano diversi punti del “confine”. Hanno avuto la “colpa” di entrare nella “no-go zone” imposta da Israele all’interno del territorio di Gaza. La conoscono bene i contadini che da anni rischiano la vita per andare nei loro campi racchiusi in quella fascia di territorio palestinese interdetta. I comandi israeliani hanno riferito di aver ordinato di sparare contro gli «istigatori delle manifestazioni violente» che lanciavano sassi e davano fuoco a copertoni. I soldati hanno eseguito l’ordine ricevuto con particolare zelo. Sette palestinesi sono stati uccisi e altri 60 feriti sulle recinzioni a est di Gaza City, più o meno all’altezza del centro abitato israeliano di Nahal Oz dall’altra parte del confine, e a est Khan Younis.

 

Come un anno fa decine di ambulanze a sirene spiegate hanno fatto la spola verso gli ospedali, tra scene di disperazione e dolore di ragazzi che trascinavano via altri ragazzi morenti, insaguinati, forse compagni di scuola, amici o parenti, sotto il fuoco dei soldati impegnati a prendere di mira gli «istigatori delle manifestazioni violente». Per sei giovani è stata inutile la corsa a tutta velocità dei mezzi di soccorso verso la speranza di salvezza. Shadi Dawla, 20 anni, Ahmad Herbawi, 20, e Abed Wahidi, 20, sono stati uccisi nella zona più orientale del quartiere di Shajayea, che resta un cumulo di macerie dopo i bombardamenti israeliani dello scorso anno. Muhammad Raqeb, 15 anni, e Ziad Sharaf, 20, sono stati uccisi a est di Khan Younis. In quella stessa zona poco dopo è stato colpito alla testa e ucciso Adnan Elayyan, 22 anni. «Abbiamo anche 60 feriti, 10 dei quali in gravi condizioni. I medici stanno facendo di tutto per salvarli», ha riferito il portavoce del ministero della salute Ashraf al-Qidra.

 

In un solo colpo Gaza si è ritrovata nel pieno della “Intifada di Gerusalemme”, così come i palestinesi chiamano la loro rivolta in riferimento alla difesa della Spianata delle Moschee, e che ora dopo ora si allarga a macchia d’olio nei Territori occupati. Per gli israeliani invece è «l’Intifada dei coltelli» per gli accoltellamenti che nell’ultima settimana hanno ucciso due ebrei nella città vecchia di Gerusalemme e ferito diversi altri (alcuni in modo grave). Il nome di ciò che accade in questi giorni non ha molta importanza. Forse non è nemmeno una Intifada o almeno non lo è nei modi in cui lo sono state le rivolte contro l’occupazione del 1987-93 e del 2000-5. L’unica cosa certa è che mette fine a anni ugualmente drammatici, di sangue, di diritti negati, di abusi, di violazioni, di cui quasi nessuno lontano da questa terra è sembrato accorgersi. E senza dubbio avrà riflessi politici di grande rilievo anche in casa palestinese.

 

«Hamas ieri è sceso ufficialmente in campo», ci spiega Saud Abu Ramadan, uno dei giornalisti di Gaza più esperti, «Oggi (ieri) è stato stato il numero 2 dell’ufficio politico (ed ex premier) Ismail Haniyeh ad assicurare che i palestinesi di Gaza non faranno mancare il loro appoggio ai fratelli della Cisgiordania. Il movimento islamico vuole partecipare con un ruolo da protagonista, sapendo di godere di sostegni popolari anche in Cisgiordania». E’ una sfida all’autorità del presidente dell’Anp Abu Mazen? «Senza alcun dubbio» prosegue Abu Ramadan «Hamas sente che la posizione di Abu Mazen è delicata e intende incalzarlo. Può conquistare nuovi consensi proprio sulla debolezza del presidente dell’Anp che non rinuncia alla cooperazione di sicurezza con Israele, uno dei capitoli più contestati (dai palestinesi) degli accordi di Oslo (del 1993)». Allo stesso tempo, aggiunge da parte sua Aziz Kahlout, analista di Gaza, «Hamas non intende andare allo scontro aperto con Israele che finirebbe per innescare un nuovo conflitto che Gaza non può permettersi visto che lotta ancora per emergere dalle macerie della guerra di un anno fa».

 

Abu Mazen passa ore ed ore nel suo ufficio a Ramallah. Non sa quale strada prendere. Israele, come Usa ed Europa, gli chiedono di agire, anche con le sue forze di sicurezza, per impedire che la tensione sfoci nella nuova Intifada. Fuori da quella stanza c’è la popolazione palestinese che reclama fermezza nei confronti delle politiche di Israele. L’immobilismo complica anche la posizione del suo movimento, Fatah. Il presidente dell’Anp sembra tenere a freno, per il momento, gli uomini della sicurezza fatti schierare a distanza dalle zone di scontro tra dimostranti e soldati israeliani. E rilascia dichiarazioni di condanna delle politiche di Israele sulla Spianata delle Moschee. Allo stesso tempo non ha il coraggio o la forza di staccare la spina alla cooperazione di sicurezza con Israele e di lasciare campo libero all’Intifada che, ne è certo, lo indebolirà e favorirà i piani di Hamas. Insiste perciò nel chiedere ai palestinesi proteste senza alcun tipo di violenza ma non tiene conto dell’impatto che la repressione messa in atto da Israele e stragi come quella di ieri a Gaza, alimentano la rabbia della sua gente. Per placare la nuova Intifada spera anche nella dipendenza dall’Anp di oltre 120mila palestinesi impiegati nei ministeri e nelle varie agenzie di sicurezza.

 

Tuttavia, scriveva un paio di giorni fa sul giornale al Ayyam di Ramallah il noto opinionista Hani al Masri, «il confronto (con Israele) non è la nostra scelta ma ci è imposto… In realtà, il confronto è necessario, se i palestinesi cercano la liberazione, il diritto al ritorno, l’indipendenza, la sconfitta e lo smantellamento del progetto coloniale israeliano». Un punto di vista largamente condiviso tra i palestinesi e nella stessa base di Fatah.