Svedese dell’Africa, come si definisce la protagonista al giovane studente di architettura appena incontrato a Roma, che poi diventerà suo marito e padre di suo figlio, Sima incarna una profonda diversità di cui va orgogliosa ma che la costringe ad uno stato perenne di insoddisfazione e disadattamento.
Nata a Londra da genitori iraniani appartenenti ad un’importante famiglia dell’Iran meridionale, uno dei più noti clan della tribù degli Afshari e dei più potenti di Shiraz, la protagonista del romanzo di Bijan Zarmandili, Storia di Sima (nottetempo, pp. 140, euro 13) è sempre stata una straniera, nella famiglia, nella società e in qualunque città e nazione si trovasse a vivere. Figlia di un immigrato persiano che aveva lasciato le sue ricchezze fatte di mandrie e tappeti di seta, di terra fertile e boschi meravigliosi per dedicarsi alla compravendita di titoli di borsa in una città e nazione che continuano a considerarlo un immigrato e per definizione inferiore, Sima rigetta ogni etichetta e convenzione sociale, razziale o religiosa che sia e incarna un senso perenne di non-appartenenza, comune a molti migranti ma che in lei sembra diventare addirittura ardente e cosciente desiderio.

Crescendo, la giovane donna sviluppa un tale senso di vergogna nei confronti di un padre che considera «grottesco nell’abito, ridicolo nel volto e infantile nella recita della sua insulsa vita», da arrivare alla consapevolezza di essere un’aliena, prigioniera di una sorte che l’avrebbe seguita ovunque, e che l’unica salvezza dall’ignominia sarebbe stata di rifugiarsi tra gli invisibili, tra altri alieni come lei.
Quando decide dunque di lasciare l’Inghilterra per l’Italia, Sima non si inserisce mai nemmeno nell’opulenta comunità del quartiere in cui vive con il marito, ora benestante architetto, in un attico di via Gramsci, e per tutti i condomini rimane una straniera, rude e antipatica, una strana creatura dall’aria minacciosa. Roma rimane per lei una città proibita, che la porta ad una ricerca di anonimato e invisibilità. Attraverso le voci di altri personaggi, il marito, il figlio e uno sconosciuto che Sima incontra per strada, il lettore ne acquisisce a poco a poco aspetti e identità parziali, sempre velati da una patina di impenetrabilità e ritrosia a svelarsi.

Scesa come una comune mendicante o barbona nei meandri della comunità di miserabili e senzatetto della città, Sima sperimenta una solitudine e precarietà, una mancanza di ogni agio e sicurezza, che si trasformano in una sensazione di liberazione in mezzo a quell’umanità variegata, sventurata e invisibile che si aggira per luoghi fortuiti di Roma come fantasmi. Solo l’incontro con Ahmed – attore somalo che mangia alla mensa dei poveri, che assomiglia a Buster Keaton, recita le poesie d’amore di Cilmi Boodhari ed imita alla perfezione Mussolini e Marilyn Monroe, come «una creatura metafisica che dentro di sé possedeva tutti i volti, tutti gli umori e i sentimenti dell’umanità» – sembra dare alla donna un senso di «casa» nella sua baracca lungo il Tevere, ma non riuscirà a placarne le inquietudini.

Nato a Teheran nel 1941, Zarmandili vive a Roma dal 1960. È scrittore e giornalista, ha pubblicato saggi e biografie sul mondo iraniano e collabora con varie testate nazionali come esperto di politica mediorientale. Nei suoi romanzi, l’autore mescola passioni amorose e civili con un tocco delicatamente poetico. Fondamentale è sempre il ruolo della memoria, attraverso cui ricostruire in maniere trasversali e con filtri diversi il passaggio dalla monarchia all’ascesa di Khomeini e all’Iran moderno e analizzare le forze dialettiche tra società e potere politico. L’intemperanza dei suoi personaggi di fronte alle tradizioni religiose e patriarcali e il desiderio di libertà individuali, ben ritraggono le illusioni di generazioni di giovani iraniani tradite nelle loro aspettative, ma anche spesso incapaci di modificare il corso della storia.

Le opere più recenti sono state pubblicate da Nottetempo: Viene a trovarmi Simone Signoret (2013) narra la storia d’amore tra un ebreo e una musulmana ambientata in Iran alla fine degli anni settanta tra gli ultimi splendori della corte dello scià e l’imminente ritorno in patria di Khomeini, rinarrata trent’anni dopo da un amico regista condannato al penitenziario per «ammiccamenti al sionismo». I demoni del deserto (2011) traccia invece l’epopea di un’intera famiglia distrutta dal terremoto, e degli unici suoi due superstiti che attraversano a piedi il deserto nel tentativo di ricostruire una nuova vita dalle macerie, odissea contemporanea attraverso un mondo antico, in cui leggende, magie e fascinazioni s’intrecciano alla cronaca dei nostri tempi di guerra.