Ad un certo punto della vita si devono se non per forza e o a torto o a ragione, tirar le somme. È la vita stessa che lo impone in dialogo con il sé e la morte. Ciò vale per il valentuomo come per l’anonimo impiegato. Meglio ancora, però, quando si tratta di un personaggio come Gianfranco De Bosio che a novant’anni licenzia per Neri Pozza il racconto della sua esistenza: e come lui la chiama? «La più bella regia. La mia vita». De Bosio, classe 1924, fu tra i protagonisti dell’affermazione nel secondo dopoguerra del teatro di regia in Italia; propugnatore delle opere del Ruzante (pur con asimmetrica stima e non da parte sua e da prospettive diverse da quelle di Dario Fo); cineasta di un pugno di film ma di che importanza: l’autobiografico «Il terrorista» che Kezich, produttore con Olmi per la 22 dicembre, rammenta così le vicissitudini a cominciare dal Festival di Venezia: in quel 1963 «aveva scontentato a destra (’Basta con queste divisioni fra italiani!’) e a sinistra (’Perché tirar fuori i contrasti della Resistenza?’)» e così trovandosi «boicottato in patria, a Parigi il film si era giovato dell’imprimatur di Jean-Paul Sartre attirando un buon pubblico alla Pagode». Ciò gli valse la stima del filosofo che gli diede la possibilità l’anno successivo di mettere in scena, dopo molto tempo, «Le mani sporche». E ancora al cinema «La betìa» sempre dall’amatissimo Ruzante, troppo in fretta derubricato tra i decamerotici e dalla ingombrante presenza di Nino Manfredi; e in tv, il kolossal «Mosè» con Burt Lancaster che inchiodò milioni di spettatori e poi il meno felice «Delitto di stato» dalla Bellonci e infine non si contano le riduzioni teatrali da Svevo e le opere come una «Tosca» girata nei luoghi d’azione qualche anno prima del kolossal Andermann/Patroni Griffi). Insomma il regista ne ha avute e ne ha ancora cose da raccontare, nel mazzo di episodi spunta la militanza nella Resistenza nell’ateneo patavino, lui veronese, tenuto da Concetto Marchesi fino al lavoro al Teatro Stabile di Torino che trova il culmine nella messa in scena di «Se questo è un uomo» di Primo Levi e i non meno interessanti anni condotti alla guida di enti lirici come l’Arena della sua città natale. A contarli sono tanti i personaggi, come divertenti sono gli omaggi che inframezzano la narrazione, e le situazioni che si rincorrono per le pagine, trattate con un gusto tanto raffinato e equilibrato quanto avvincente tanto che nel lettore potrebbero dar origine ad un nuovo film.