Passeggiando da piazza al-Tayyuneh verso il cuore di Dahyeh – periferia meridionale di Beirut, meglio nota negli anni settanta come hizam al-bu’s (‘la cintura della miseria’) – Hani si ferma per mostrarmi una foto sul suo cellulare. Mentre cerca l’immagine nella galleria virtuale, getto uno sguardo ai caffè con i divani nuovi. È l’orgogliosa ostentazione di una rivincita socio-economica e della rampante rinascita di Dahyeh a seguito della guerra del 2006, in cui Israele distrusse buona parte del quartiere generalmente considerato, con dolosa semplificazione, «la roccaforte sciita di Hezbollah».

Hani trova finalmente la foto e me la mostra: su una montagna arida che si staglia su un cielo azzurro e terso, è in posa e sorridente con il braccio sulla spalla di un altro ragazzo in divisa paramilitare. «Lui combatte con la Jabhat al-Nusra» mi dice. Lo guardo curiosa e interrogativa. «Ma non combattete su due fronti opposti?» gli chiedo. Hani è un militante di Hezbollah, il partito sciita e gruppo armato libanese e quella foto, scattata sui promontori siriani di Qalamun, campo di battaglia del conflitto scoppiato in Siria nel 2011, lo ritrae con un membro di una delle principali milizie sunnite e salafite – affiliata ad al-Qaeda fino all’agosto 2016, quando la Jabhat al-Nusra divorziò dal network di Ayman al-Zawahiri, rinominandosi Jabhat Fateh al-Sham. «Ci eravamo dati una tregua.

Anche gli inglesi e i tedeschi giocarono a pallone la notte di Natale del 1914», mi risponde infine Hani, guardandomi di sbieco con un sorriso arguto. Il conflitto che si consuma in Siria dall’estate 2011 viene comunemente liquidato nel racconto mediatico come scontro religioso e identitario tra sunniti e sciiti. L’ineluttabilità violenta sarebbe legata al carattere atavico del conflitto stesso: una mattanza secondo molti irrisolvibile, trattandosi – come recita il mantra esplicativo di maggiore successo sui media internazionali – di «una guerra che dura da 1400 anni». Ricercare l’eziologia della violenza di oggi nella battaglia di Karbala del 680, che sancì lo scisma tra le due correnti musulmane, quella sunnita e quella sciita, comporta almeno tre problemi: il primo banale, il secondo paradossale, il terzo criminale. Partiamo dal primo.

Sostenere che sunniti e sciiti si facciano la guerra da quasi un millennio e mezzo è un’operazione di pseudo-storia. Nella realtà, i periodi di pace tra dinastie e poteri che esprimevano rispettivamente le due correnti sono stati assai più durevoli: la continuità della violenza intra-musulmana è dunque mitologica. Per di più, la tendenza a preferire lo «spirito di Karbala» allo «spirito della storia» oscura il carattere eminentemente politico, assai più che dottrinale-religioso, della stessa battaglia del 680, originata fondamentalmente da una lotta di successione.

Il secondo problema ha, come si accennava, implicazioni paradossali. Sebbene il ricorso alla pseudo-storia per orientare maliziosamente il presente sia una pratica ben collaudata in diverse epoche di pace e guerra, l’eternalizzazione che oggi si tende a fare della battaglia di Karbala alimenta il presentismo – ovvero quell’attitudine che lo storico François Hartog identifica come suprema incapacità di reperire le reali radici storiche dei problemi socio-politici contingenti. Il disagio della contemporaneità si spiega principalmente attraverso se stesso, mentre lo spirito di Karbala si riduce a mero appiglio mistico per orientarsi in un presente fondamentalmente illeggibile, in cui la comprensione degli interessi politici, strategici ed economici che muovono i conflitti viene schiacciata dal trionfo dell’identità etnica, religiosa, culturale o geografica. Veniamo, dunque, al terzo problema: ovvero l’uso criminoso di un discorso del potere che manipola le identità confessionali per preservare costantemente se stesso. Come sostiene George Corm, il «ritorno del religioso» è un fenomeno che nasce nel XX secolo e raggiunge l’acmé con la fine della guerra fredda.

La settarizzazione delle società e dei loro conflitti viene veicolata da una retorica volta a mascherare il carattere cinico del potere politico ed economico. La dominazione viene giustificata con leggende di superiorità o inferiorità intellettuale consustanziali all’appartenenza a questo o quel gruppo religioso. Questa dinamica scatena conseguenze politiche devastanti: da un lato, il mantra del liberismo tatcheriano – la «società non esiste» – diventa una sorta di profezia che si avvera. Le comunità politiche e laiche soccombono sotto il trionfo delle comunità religiose e confessionali.

Con esse, le diseguaglianze socio-economiche vengono appese a chiodi identitari, mentre la sfera della politica viene esonerata dalle proprie responsabilità. Dall’altro, sul piano internazionale, le occupazioni, le guerre, gli embarghi, i genocidi vengono giustificati con la stigmatizzazione di identità confessionali che sollevano le elite al potere dalla valutazione del proprio operato, perpetuando la loro autorità in quanto rappresentanti identitari, piuttosto che politici. Come si inquadra in tutto questo la fitna irachena originata a sua volta dall’occupazione americana del 2003, il conflitto in Siria cominciato nel 2011, coinvolgendo parte del Libano, la guerra in Yemen: tutti scontri che oppongono tra loro sunniti e sciiti?

Perché Hadi, che è sciita e libanese diventa un combattente transnazionale e il suo spazio di azione offensiva o difensiva (a seconda della prospettiva che si assume) si allunga dalla periferia meridionale di Beirut potenzialmente fino al golfo di Aden? L’origine della rivalità tra sunniti e sciiti nel Medio Oriente contemporaneo ha una data e un luogo ben precisi: 1979, Teheran.

L’ayatollah Khomeini lascia la sua residenza francese a Neauphle-le-Château e torna in Iran egemonizzando lo spazio pubblico e riempiendolo di una connotazione religiosa, dopo aver disintegrato la pluralità delle anime in rivolta contro lo Shah. È così che nasce la repubblica islamica e, simultaneamente, il progetto di esportare la rivoluzione: una politica di potenza con ambizioni imperialistiche guidate da un principio identitario. Dal suo canto, la famiglia regnante saudita, espressione di una dittatura sunnita e wahhabita, comincia a mobilitare le sue immense risorse per contrastare l’espansione dell’Iran, così come aveva fatto contro i nazionalisti arabi a partire dagli anni sessanta. Ma le faglie confessionali non dividono allora le società.

Sarà infatti l’Iraq nazionalista di Saddam Hussein a contrastare in una delle più sanguinose e inutili guerre interstatali del ventesimo secolo la potenza iraniana. Gli sciiti iracheni moriranno per la nazione, combattendo contro gli sciiti iraniani. Il carattere transnazionale dell’identità religiosa attecchisce negli anni ottanta solo in Libano, con la nascita di Hezbollah durante la guerra civile libanese. Ma anche qui la dinamica è del tutto «profana»: in un paese come il Libano, basato sulla ta’ifiyya, il «confessionalismo politico» come cifra di organizzazione istituzionale, gli sciiti erano marginalizzati in uno stato mantenuto debole per rafforzare le élite cristiane e sunnite che veicolavano, allora come oggi, la lealtà elettorale attraverso il welfare privato. Hezbollah riempie il vuoto politico in cui soccombono gli sciiti come gruppo elettorale, molto più che confessionale.

La religione in un sistema consociativo come quello libanese è mero strumento di negoziazione politica, come già notava il filosofo marxista Mahdi ‘Amel, assassinato nel 1987, la cui rivisitazione di Gramsci è rimasta non tradotta e confinata tra i praticanti della lingua araba.

È con la fine della guerra fredda che cominciano a disintegrarsi le comunità politiche e cittadine a favore delle comunità confessionali. Il colpo di grazia lo daranno le politiche economiche neoliberiste promosse, dalle istituzioni economiche internazionali negli anni 90, che impongono ai governi liberalizzazioni e privatizzazioni in cambio di credito (e debito). Sarà con questa dinamica che i regimi nazionalisti arabi perderanno gli ultimi relitti della capacità demiurgica di preservare un leviatano laico, ispirato all’idea di stato che distribuisce e protegge.

Le comunità cittadine nel mondo arabo sempre più vessate dalla crescita delle diseguaglianze e governi dominati da businessman corrotti, cedono alla seduzione dirompente dei poteri religiosi. Questi ultimi competono e flirtano con le élite al potere: le moschee e gli istituti di carità islamici praticano un welfare privato, motore principale dell’islamizzazione del mondo arabo.

L’invasione americana dell’Iraq nel 2003 canalizza queste direttrici conferendo loro un dirompente potenziale per ristrutturare le società. Da una parte, il sistema di quote confessionali à la libanaise, imposto all’Iraq post-Saddam politicizza e istituzionalizza l’identità religiosa come simbolo elettorale. Sul piano internazionale, la guerra al terrore di George W. Bush libera involontariamente l’Iran della due principali minacce e forze di contenimento, rimuovendo il potere dei talebani in Afghanistan e quello del partito Ba’th in Iraq, permettendo così a Teheran di sciogliere le briglie della sua politica di potenza. È qui che riemerge la rivalità geopolitica tra Arabia Saudita e Iran: una guerra fredda tra aspiranti egemoni regionali.

La fitna irachena viene nutrita rispettivamente dalle potenze del Golfo e dall’Iran. Quando nel 2011 la rivoluzione scoppia in Siria, il gioco si riproduce e si espande: l’occasione è buona per scippare la rivoluzione ai siriani, trasformandola nell’ultimo baluardo di un gioco a somma zero, volto a conquistare spazi politici attraverso l’odio religioso. Così se lo shaikh sunnita Yusuf al-Qaradawi nel 2006 aveva lodato il partito sciita libanese Hezbollah per la resistenza contro Israele, nel 2011 lo stesso uomo del clero comincia la sua battaglia ideologica contro gli sciiti. Gli alawiti (sciiti), cui appartiene la famiglia di Bashar al-Asad e parte del suo regime, vengono bollati come apostati (murtadd) e, in una celebre fatwa, come «più miscredenti (akfar) dei cristiani e degli ebrei».

Parte così la campagna al reclutamento che sfalda ulteriormente le comunità nazionali, ricomponendole su base transnazionale. In Yemen, infine, l’Arabia Saudita entra in guerra contro gli Houthi stigmatizzati per la loro appartenenza alla comunità sciita e presunta lealtà all’Iran. Lo spirito di Karbala non è affatto lì da sempre, ma viene invocato all’occorrenza per reinventare l’identità e plasmare il conflitto politico: è un processo che ci mette un attimo ad attecchire su una società liquida, facendo dimenticare quanto le alleanze mutano, mentre muta il quadro degli interessi all’interno di una ipermodernità in cui le identità confessionali si stanno strutturalmente sostituendo a quelle politiche, esacerbando i conflitti sociali.

Fa venire in mente Omar e Tareq, i due ragazzi del film «West Beirut» di Ziad Doueiri, ambientato nella parte «musulmana» di Beirut opposta a quella orientale e «cristiana» durante la guerra civile: spalle appoggiate sulla superficie ruvida di una saracinesca, tristi e basiti perché il padre di Omar ha vietato di ascoltare ancora George MacCrae, una cosa «da infedeli» per i due ragazzi che passavano pomeriggi a saltare sul letto sulle note di Rock your baby, rifuggendo dalle trappole di una guerra in cui tutti parlano la lingua della religione, mentre perseguono interessi profani. Sotto ci sono le vite di una società che si frantuma. Hadi mentre cammina con me a Dahyeh non ha dubbi: il conflitto tra sunniti e sciiti «è stato attivato» (tamma taf’iluhu), per conquistare il Levante arabo. Ma è ben consapevole dello scarto estremamente labile tra la consapevolezza della manipolazione politica del discorso e l’adesione ad un’idea incendiaria.