SI è appreso pochi giorni fa che Muhammad Alì a stento muove un muscolo o proferisce verbo. Il morbo di Parkinson, come una nemesi beffarda e impietosa, ha colpito l’anziano campione nelle sue facoltà più prominenti. Il 30 ottobre 1974, quando sfilò la corona mondiale dai possenti guantoni di «Big» George Foreman, l’esuberanza corporea e la loquacità straripante non gli facevano invece difetto. Se la prestanza e la freschezza atletica non erano più quelle del leggiadro boxeur che negli anni ’60 aveva infranto gli stilemi classici della noble art, trasferendo la mobilità dei pesi medi nelle zuffe fra i giganti da 100 chili, l’eloquio, la presenza scenica e la lucidità psicologica erano invece ancora all’apice.

Pochissimi però ritenevano che il carisma e l’esperienza mettessero Alì al riparo da una severa punizione contro l’invitto re dei pesi massimi, il giovane e potentissimo Foreman. Il nerboruto texano aveva conquistato il titolo infliggendo un autentico pestaggio all’imbattuto Joe Frazier (finito al tappeto sei volte in due round!) e poi costretto a una rapidissima resa il poderoso Ken Norton: da entrambi, Alì aveva subito delle dure lezioni, prima di prendersi le sofferte rivincite che lo elevarono al rango di legittimo contendente di Foreman. L’incontro fu il primo organizzato da Don King, l’ex-galeotto che sarebbe stato il maggior promoter degli ultimi decenni d’oro del pugilato. King andò da Foreman e gli promise 5 milioni di dollari per mettere in palio la corona, poi fece lo stesso con Alì. A quel punto, doveva solo racimolare la borsa di 10 milioni. A sorpresa, l’offerta venne da Mobutu Sese Seko, il sanguinario despota dell’allora Zaire, l’ex possedimento belga saccheggiato da un dominio coloniale fra i più rapaci e disumani di sempre.

Con il sostegno di Washington e Bruxelles, Mobutu aveva fatto strame del primo governo democraticamente eletto e, dopo l’assassinio del primo ministro Patrice Lumumba, si era insediato al potere nel 1965 con un colpo di stato. Nel 1974, era evidentemente in cerca della visibilità che il «match del secolo» gli poteva assicurare. Senza porsi eccessivi scrupoli morali, le carovane dei due pugili fecero rotta per la capitale Kinshasa, seguite da cospicui contingenti di giornalisti, scrittori ed esperti vari, nonché da numerose stelle del soul e del blues, che avrebbero dovuto dar vita a una sorta di «Woodstock nera» quale contorno musicale al combattimento, subito ribattezzato «Rumble in the jungle», la rissa nella foresta, dall’istrionico Alì. In tema di diritti civili, Alì era da tempo la spina nel fianco dell’America benpensante e gli venne naturale presentare il suo viaggio in Africa come un ritorno alle origini e all’orgoglio razziale. Nel 1955, era rimasto sconvolto dalla straziante fine del coetaneo Emmett Till, il ragazzino di colore brutalmente seviziato e assassinato nel Mississippi per aver rivolto la parola a una commessa bianca, senza che i suoi aguzzini venissero condannati da una giuria composta di soli bianchi. Nel 1960, reduce dall’oro conquistato alle Olimpiadi di Roma, fu ricevuto con tutti gli onori nella città natale di Louisville, ma con la medaglia al collo si vide rifiutare un succo di frutta in un bar che osservava le odiose regole della segregazione razziale.

Perciò Alì sviluppò presto un’evoluta coscienza sociale e civile, sulla quale germogliò il suo interesse per l’organizzazione suprematista nera «The Nation of Islam». Ai musulmani neri aderì nel 1964, ripudiando l’originario nome di Cassius Marcellus Clay, dopo aver conquistato la cintura di campione del mondo contro il temibile Sonny Liston. Infine, dopo tre anni di dominio incontrastato, rifiutò la coscrizione obbligatoria per il Vietnam e fu privato del titolo: «Se andare in guerra significasse portare libertà e uguaglianza ai miei fratelli neri, non ci sarebbe bisogno di coscrivermi, partirei domani. Siamo stati in catene per 400 anni e ora non ho niente da perdere opponendomi e seguendo le mie convinzioni», fu il suo commento. Era pertanto naturale che Foreman fosse confinato nel ruolo del «cattivo». Un intero continente si schierò dalla parte del 32enne sfidante, che alimentò la passione mescolandosi fra la gente e i ragazzini, che lo incitavano al grido di «Alì, bomaye!», Alì uccidilo, mentre si allenava lungo il fiume Congo. Nell’aria densa e appiccicosa dell’imminente stagione delle piogge, l’incontro iniziò alle quattro del mattino, perché fosse trasmesso alla tv americana in prima serata dal noto anchorman David Frost. Le otto riprese del match furono quanto di più vicino si possa immaginare alla parabola simbolica dell’eroe: Alì soppesò la paura di venire annientato da un nemico soverchiante, chiese e ottenne il sostegno della sua gente, dette fondo alle più riposte energie psico-fisiche e infine atterrò il gigante, dopo averlo spinto all’ira e allo sfinimento.

A quarant’anni di distanza, desta una certa meraviglia che molti faticassero a comprendere l’epos dell’evento, avvinti alle fruste dietrologie che rimbalzavano ai quattro angoli del globo. Anche Giuseppe Signori su l’Unità e Giovanni Arpino su La Stampa accreditarono il sospetto della recita, funzionale all’organizzazione di una rivincita, verosimilmente ancora più lucrosa. Ne vedevano i segni nel troppo rapido conteggio dell’arbitro Zach Clayton, che secondo loro aveva mostrato eccessiva tolleranza verso la tattica rinunciataria di Alì, rimasto a lungo con la schiena alle corde, come «un uomo che si sporgesse dalla finestra per guardare qualcosa sul tetto», sfruttandone l’elasticità per attutire le furenti cariche del campione – è appena il caso di ricordare che il teorema della combine fu confutato alla radice dalle vicende che interessarono lo stesso Foreman. Appiedato da una profonda depressione, dopo Kinshasa restò lontano dal ring per 15 mesi e si ritirò nel 1977, prima di ricostruire la sua carriera e diventare a 46 anni il più anziano pugile della storia a laurearsi campione del mondo. I contemporanei non colsero la vera portata degli eventi per la vicinanza ai fatti e l’assenza di un’adeguata narrazione. Come ha teorizzato l’illustre semiologo Roland Barthes, il mito scaturisce prima di tutto dalla parola, è un modo di significare, di attribuire una forma a una materia già lavorata in vista di un’appropriata comunicazione.

A questo pensò, oltre venti anni dopo, il docu-film di Leon Gast Quando eravamo re. E fu una benedizione, per la fabbricazione del mito, che arrivasse così tardi, per vari intoppi legali e finanziari. Quello che negli anni ‘70 sarebbe stato solo documentario e testimonianza, alla fine del secolo divenne memoria e racconto leggendario di gesta antiche e sbalorditive. La pellicola di Gast coglie e ricostruisce mirabilmente il fascino di un periodo in cui la boxe contava e i combattimenti erano assai più di uno scambio di ganci e montanti. Grazie a un montaggio ispirato e incalzante, le riflessioni posteriori del regista Spike Lee sul rivoluzionario impatto che Alì ebbe sulla comunità nera, le emozionanti rievocazioni dello scrittore Norman Mailer, i filmati di James Brown, B.B. King e Miriam Makeba sul palco del festival, si alternano alle teatrali irruzioni sullo schermo di Muhammad Alì, torreggiante sugli altri protagonisti come una figura non meno epica che irripetibile. La sua sola presenza rende gloria al film, lo riempie di vitalità prorompente, di candore disarmante, e ne svela l’esilarante talento oratorio e la cifra auto-ironica: in una conferenza stampa, proclamò: «Per prepararmi a questo combattimento, ho ucciso una roccia, ferito una pietra e ricoverato un mattone!». I giurati dell’Academy Awards non poterono esimersi dal riconoscere l’Oscar all’opera di Leon Gast. Alla cerimonia di premiazione, nel marzo del 1997, i due vecchi nemici si presentarono insieme, e un Foreman irriconoscibile e pacificato sorresse l’incedere ormai malfermo di Alì.