Tra i romanzi che hanno segnato la stagione letteraria 2014 negli Stati Uniti, We’re not Ourselves, poderoso esordio di un giovane autore, Matthew Thomas, nato e cresciuto a New York, nel Queens, ha occupato fin dalla pubblicazione un posto di assoluto rilievo. Inserito tra i libri dell’anno da tutti i quotidiani e le riviste che fanno opinione, New York Times e Washington Post in primo luogo; salutato come un capolavoro da «giovani leoni» della nuova narrativa americana come Chad Harbach (L’arte di vivere in difesa) e Joshua Ferris (E poi siamo arrivati alla fine), il romanzo di Thomas è arrivato da quasi due mesi anche in Italia, grazie a Neri Pozza (Non siamo più noi stessi, pp. 640 pagine, euro 19,00, traduzione, scorrevole ed elegante, di Chiara Brovelli), ed è stato accolto con un’attenzione inferiore a quella che merita, per l’oggettiva qualità della scrittura e per la padronanza con cui l’autore dimostra di saper gestire i tempi lunghi di una storia che abbraccia buona metà del cosiddetto «secolo americano».
Ovviamente, nel cercare capostipiti o punti di riferimento ai quali Thomas avrebbe attinto per la costruzione del racconto, molti dei recensori hanno evocato quello che ormai sembra un richiamo obbligato, ogni volta che un romanziere scelga di concentrarsi sulle dinamiche famigliari, utilizzandole come filtro, spesso disfunzionale, per raccontare la crisi o la fine di un sogno, le trasformazioni sociali di un paese, l’affanno di vivere di un’America soffocata dal suo stesso benessere, o dalla sua egemonia: il Jonathan Franzen di Le correzioni e, in subordine, di Libertà. Come tutti i paragoni «banali», o prevedibili, anche questo è insieme sensato e superficiale: ci dice sicuramente qualcosa sul romanzo di Thomas, ma rischia anche di concentrare la nostra attenzione su quelli che sono gli aspetti in fondo meno rilevanti, e che non ne giustificherebbero di per sé l’importanza.
Non siamo più noi stessi si fonda, in primo luogo, su un apparente paradosso, che l’autore – in questo, tutto fuorché il tipico esordiente – sa gestire con abilità e inventiva davvero insolite. Da un lato, il romanzo abbraccia un arco temporale amplissimo, dal 1953 al 2011: tutta o quasi la vita della protagonista, Eileen Tumulty, figlia di immigrati irlandesi, infermiera professionale, e delle due persone che andranno a costituire il suo nucleo famigliare: Ed Leary, il marito, professore universitario con la passione per la ricerca e l’insegnamento, e Connell, il figlio, conteso tra le ambizioni della madre – che proietta su di lui. oltre che sulla ossessiva ricerca di una casa di proprietà in un quartiere diverso dal Queens degradato nel quale trascorre i suoi giorni, le sue ambizioni di ascesa sociale – e il modello del padre, che non intende in alcun modo imporgli un modo di essere o una prospettiva, lasciandolo libero di trovare la sua strada e di costruirsi autonomamente il proprio sogno. Dall’altro lato, Thomas rifiuta deliberatamente i tempi narrativi e il respiro costante e maestoso della grande saga, di stampo ottocentesco, preferendo procedere per strappi, tra sunti, tagli e accelerazioni. E divide in ogni caso il romanzo in due metà distinte: una prima, più breve e scorrevole, dai ritmi più agili, che accompagna Eileen e Ed fino alla soglia dei cinquant’anni; una seconda, nella quale ogni scena e ogni passaggio narrativo tendono a dilatarsi in una congerie di dettagli, tutti rivelatori, che è incentrata sulla malattia di Ed, còlto da Alzheimer precoce, e sul disperato tentativo, da parte di Eileen come di Connell, di «accogliere» la nuova persona che hanno accanto, accettando così il dato di fatto richiamato dal titolo stesso del romanzo: che non solo Ed non è più se stesso, ma per effetto del suo cambiamento nessuno lo è più, perché la malattia, con il suo retaggio di oblio e confusione, modifica i ritmi vitali e il modo di stare al mondo di tutti i personaggi.
La doppia scansione del romanzo rende difficile e forse vacuo schiacciare una presenza importante e ambiziosa come quella di Thomas dentro un unico ambito o modello di riferimento. La prima parte, nella quale più forte è il tema dell’immigrazione, dell’integrazione nel tessuto sociale americano e delle trasformazioni che quello stesso tessuto subisce, è inquadrabile – come ha giustamente notato il critico del New York Times Janet Maslin – dentro quella letteratura irlandese-americana della quale è meravigliosa e sottovalutata esponente la Alice McDermott de Il nostro caro Billy (non a caso, ambientato nello stesso Queens di Non siamo più noi stessi). Tanto più che, proprio come McDermott in molti dei suoi libri, anche Thomas sceglie di accennare solo di sfuggita ai grandi eventi della storia americana, dal Vietnam al movimento per i diritti civili, preferendo soffermarsi sulle trasformazioni che colpiscono il quartiere nel quale Eileen Tumulty è cresciuta e ha preso casa: da terminale dell’immigrazione irlandese e italiana a crogiolo multietnico nel quale si riversano, in rapida successione, i nuovi dannati della terra, latino-americani prima, indiani o orientali poi. Trasformazioni cui Eileen reagisce con un misto di paura e disprezzo sociale, ma anche curiosità e umana partecipazione, rivelando in questo le complessità di un carattere aspro ma generoso, sgradevole quanto umano.
Proprio il contrasto tra la determinazione, l’ambizione e il sogno di mobilità di Eileen e il dolce immobilismo di Ed rappresenta la grande invenzione narrativa che rende affascinante la lettura di Non siamo più noi stessi. Thomas capovolge in modo deliberato, a tratti fin troppo programmatico, la tradizionale dicotomia tra l’espansionismo maschile e il familismo femminile sulla quale, come insegna il Leslie Fiedler di Amore e morte nel romanzo americano, è stato edificato l’intero immaginario di una nazione. E rende tale capovolgimento ancor più emblematico nel momento in cui l’Alzheimer, l’oblio fatto sistema, colpisce, nella coppia, proprio chi – in questo caso, l’uomo – delle tradizioni e dell’esercizio quotidiano della memoria ha fatto il proprio programma di vita (al punto da rinunciare a diverse possibilità di ascesa sociale, e da rifiutare in modo quasi aprioristico l’idea di cambiare casa o quartiere). Con l’effetto che la custodia del passato, delle tradizioni, delle abitudini, torna nelle mani del personaggio femminile, costringendo Eileen a rivedere molte priorità e ambizioni e a imparare un altro modo di stare al mondo. Un percorso, fatto di accettazione e sofferenza, che le consentirà di trovare un’altra se stessa: né migliore né peggiore rispetto a quella che ha accompagnato il lettore nella prima parte del romanzo, ma semplicemente diversa.
Nel seguire questo processo di dolorosa accettazione e rinascita, la scrittura di Thomas si impenna e raggiunge vertici di autenticità e potenza davvero rari. Le pagine sull’Alzheimer e sull’impressionante portato simbolico di questa che è, forse, la vera malattia della contemporaneità, non conoscono eguali nel romanzo contemporaneo per acume, penetrazione psicologica e deliberato rifiuto di ogni pietismo o deriva sentimentale. La malattia di Ed tira fuori il peggio tanto in Eileen quanto, e ancor più, in Connell, che non ha gli strumenti né la maturità per accettarla, e che, vedendo il padre «davanti alla macchina del caffè, con le gambe arcuate», lo descrive così a se stesso, con un misto di affetto e rabbia: «Sembrava un bambino con il pannolone pieno, e al tempo stesso un pistolero che aveva attraversato il deserto ed era stato colpito da un fulmine». Dimenticando di avere di fronte a sé quello stesso padre che, quando, insieme a Eileen aveva deciso di comunicargli l’insorgere della malattia, aveva risposto così alla domanda di Connell, «Arriverà un momento in cui non saprai più chi sono?»: «Io saprò sempre chi sei. Te lo prometto. Anche se penserai che io non ti conosca, anche se ti darò quest’impressione. Saprò sempre chi sei. Sei mio figlio. Non dimenticarlo mai».
È proprio nel rifiuto di fare sconti ai suoi personaggi, e nel raccontarne slanci e meschinità, sofferenza e riscatto, che Thomas raggiunge le vette massime della sua scrittura, e partorisce un romanzo che, proprio per il suo non voler essere «soltanto» l’ennesima saga famigliare, lo impone come una voce nuova e importante, con la quale fare i conti oggi e in futuro.