In un suo intervento apparso su «l’Unità» del 25 luglio Marco Albeltaro sostiene la tesi della necessità di ricordare Palmiro Togliatti a sessant’anni dalla scomparsa in misura molto maggiore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia «Futura umanità. Associazione per la storia della memoria del Pci», sia «Critica marxista», nelle quali sono impegnato, hanno dedicato o dedicheranno a Togliatti contributi di conoscenza e di analisi e. E credo che anche «il manifesto» non mancherà questo appuntamento. In particolare «Futura umanità» ha aperto le celebrazioni togliattiane con un convegno, svoltosi a Roma nel novembre 2013, le cui relazioni sono state pubblicate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Ferrara, Gianpasquale Santomassimo, Togliatti il rivoluzionario costituente, Editori Riuniti) e presentate di recente in una sede parlamentare. Qualcosa si è fatto, dunque, e sicuramente nei prossimi mesi altro si farà. E bisognerebbe fare di più, ne convengo con l’autore.
Dove non posso essere d’accordo con Albeltaro è invece su ciò che emerge dalla sua argomentazione, basata sulla contrapposizione, che egli avanza esplicitamente, tra la riflessione su Togliatti (segnatamente il Togliatti degli anni 1944-1964) e il ricordo e la riflessione su Berlinguer. Nel farlo, Albetraro ricorda anche il mio recente Berlinguer rivoluzionario (Carocci), ma afferma che le diverse e opposte letture di Berlinguer emerse in questo trentesimo anniversario della morte sono tutte non solo parziali, ma anche esagerate, poiché «guardare a Togliatti e alle sue scelte sembra più utile che guardare a Berlinguer».

La peculiarità del Pci

Non capisco perché si debbano contrapporre queste due figure della tradizione del comunismo italiano: come Albeltaro stesso dice, hanno vissuto in epoche diverse e fronteggiato problemi diversi. Entrambi sono state eminenti personalità politiche che hanno contribuito a creare, ciascuno nella propria epoca, quella peculiarità del comunismo italiano che in Gramsci ha le sue radici.
Certo, vi sono anche delle diversità, dovute per lo più alle diversità di contesto. Sul piano della politica interna, l’unico che Albeltaro affronta, va notata questa differenza: Berlinguer si rese conto, sia pure in modo contraddittorio, dei limiti di una politica chiusa in un livello istituzionale-parlamentare-partitico. Mentre fu strenuo difensore della Costituzione e della centralità del Parlamento (di entrambe, è appena il caso di notarlo, si sta facendo in questi anni e in questi giorni carne di porco), vide anche – e qui appare più vicino alla riflessione gramsciana, anche a quella del carcere – come questo tipo di democrazia, se non intrecciato con forme diverse e più partecipate, e con l’apertura alla società e ai movimenti, diviene terreno di conquista delle élites, se non addirittura delle camarille, come aveva già ben fotografato a suo tempo Gaetano Mosca. Già prima della stagione del compromesso storico, a ridosso del «secondo biennio rosso» (1968-1969), vi è in Berlinguer questa sensibilità e questa riflessione. Dopo la parentesi degli anni Settanta e la lezione appresa dagli errori fatti con la solidarietà nazionale, Berlinguer compie una coraggiosa autocritica, portando il suo partito a riflettere sul rinnovamento profondo necessario per la sua cultura e per tutto un modo di intendere la politica. Purtroppo in pochi lo ascoltarono e lo seguirono, nel gruppo dirigente del Pci. Ma la «connessione sentimentale» ristabilita col suo popolo ci fanno intendere come di quelle parole e di quegli atti vi fosse bisogno. Vale la pena ricordare una intervista televisiva del 1980, al ritorno da un viaggio in Cina, nella quale Berlinguer afferma che quella parlamentare non è l’unica forma possibile di rappresentanza democratica e che ciò che davvero contraddistingue una democrazia sono non le forme della rappresentanza, che mutano con le epoche e i contesti, ma le libertà fondamentali di pensiero, parola, stampa, organizzazione politica e sindacale.

Personalità complementari

Togliatti si mosse in una temperie storica diversa: si trattava non di allargare la democrazia, ma di restaurarla dopo la parentesi fascista, di consolidarla, di lottare contro lo scelbismo e contro la legge truffa degasperiana (il maggioritario, anche allora, era il grimaldello per scassare la democrazia), di far entrare stabilmente le masse nella storia di questo paese, facendone un pilastro di democrazia. I partiti sono la democrazia che si organizza, come giustamente scrive Albetraro. La riflessione berlingueriana su come questi partiti debbano intrecciarsi con la società ribadiva questa lezione e la approfondiva, facendo tesoro dell’esperienza intercorsa e cercando di contrastare quella riduzione della politica ad affare di pochi che, ieri come oggi, ha nel decisionismo il suo vessillo principale. La direzione di marcia di Berlinguer e di Togliatti è la stessa, e appare oggi decisamente controcorrente. E quindi da riprendere.
Infine, non può essere dimenticato in questo anno di anniversari (a quello di Togliatti e Berlinguer aggiungerei anche il ricordo dei 110 anni dalla morte di Antonio Labriola, ancor più dimenticat) che la grande risonanza che viene data al decennale della morte di Berlinguer costituisce una indubbia novità, anche politica. Come non ricordare che dieci o venti anni fa questo fiorire di iniziative non vi fu? Come non ricordare che vi furono decennali in cui prevalse il grido di «dimenticare Berlinguer»? Se quest’anno così non è anche perché si è capito che di Berlinguer c’è bisogno per combattere quel tentativo di restringimento della democrazia che è manifesto nella operazione «riformistica» in atto (ma iniziamo a chiamarla col suo nome, Controriforma, poiché la nostra Riforma fu la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza), per difendere anche ciò che Togliatti ha saputo costruire. Per questo non vi è contrapposizione reale tra Togliatti e Berlinguer. Essi sono, si sarebbe detto un tempo, «uniti nella lotta».