«Un’altra cosa che vorrei dire, e soprattutto ai nostri compagni che hanno già una certa preparazione, è che lo studio per loro non può consistere e non deve consistere nel mettere faticosamente assieme idee generali in forma più o meno polemica. Questo sforzo non porta di solito a fare niente di serio, e anch’esso non è studio, quando manchi la ricerca attenta, paziente, larga, dei materiali di fatto, quando manchi l’esame critico di questi».
C’è anche questo (tra consigli su come leggere e studiare, in una lettera a «una cellula dell’apparato» pubblicata su Vie nuove del marzo 1949) nella raccolta recentemente pubblicata (Palmiro Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, Prefazione di Giuseppe Vacca, Einaudi, pp. 372, euro 24), selezione inevitabilmente e consapevolmente «arbitraria» di un epistolario vastissimo, parte di un Fondo che attende una piena valorizzazione.
Il titolo discutibile, gramsciano, richiama un’atmosfera successiva al fallimento della rivoluzione comunista in Europa, quella «guerra di posizione» vissuta da Gramsci e Togliatti anche come occasione per ripensare i termini della sconfitta e per impedirne il ripetersi. E nella prima intervista a un inviato speciale della Reuters nell’aprile 1944, con la quale si apre il volume, Togliatti ribadiva: «Nei primi anni della sua esistenza il Partito comunista italiano commise gravi errori di settarismo, non seppe fare una politica di unità del popolo per la difesa delle libertà democratiche contro il fascismo. Di questi errori trasse profitto la reazione e noi oggi ci guarderemo bene dal ripeterli».
Ma il «ventennio togliattiano» (1944-1964), in cui Togliatti esercita il ruolo di costruttore e capo di un grande partito comunista di massa, appartiene ad epoca diversa, in cui guerra di trincea e di movimento si intrecciano in forme ormai lontane dalla fase «bolscevica». Le lettere ci restituiscono, come ha notato Mario Tronti su «l’Unità» del 7 luglio, «un Togliatti molto gramsciano, ma che non smette mai, nemmeno per un momento, di essere togliattiano». Dove mentalità togliattiana significa indubbiamente realismo, valutazione attenta e costante dei rapporti di forza, non per cristallizzarli ma per modificarli a vantaggio di un fronte ampio di alleanze da costruire, rivolgendosi a tutti gli interlocutori possibili. L’elenco dei corrispondenti rispecchia l’ampiezza di questa propensione al dialogo e alla ricerca di un terreno d’incontro mai subalterno (da Pietro Badoglio a Benedetto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilenchi, da Pietro Nenni a Vittorio Valletta e alla famiglia Olivetti, da Stalin a Giuseppe Dossetti).
Il ruolo attribuito alla cultura, da costruire quasi da zero – più che recinto da «egemonizzare» – per chi veniva dalla distruzione operata dal fascismo è uno dei temi fondamentali del volume, una «battaglia delle idee» seguita con cura anche nel dettaglio, quasi maniacale, senza impartire in genere «direttive», anzi rifiutando dirigismi confusi e caporaleschi sul terreno della ricerca storica (la vicenda già nota della difesa di Gastone Manacorda dalla pretesa di «dettare la linea» da parte di esponenti dell’apparato).
Quello che probabilmente colpisce di più il lettore odierno è lo sfoggio – innegabilmente compiaciuto – di erudizione, che si esplica ad esempio nelle polemiche con Vittorio Gorresio attorno a un sonetto di Guido Cavalcanti e alla sua esatta grafia: dove c’è sicuramente la volontà di dimostrare che i comunisti non erano i selvaggi dipinti dalla propaganda avversaria, ma non c’è in alcuna forma la volontà di venire ammessi nei «salotti buoni» della borghesia, che travolgerà lontani eredi di quella tradizione in anni futuri. C’è ancora la volontà di costruire un circuito culturale autonomo e parallelo, che riprende ispirazioni dell’«universo socialista» a cavallo fra i due secoli, ma senza semplificazioni grossolane e interagendo senza rigide separazioni con la cultura nazionale. C’è anche la convinzione che il movimento operaio debba essere, classicamente, «erede» dei punti più alti della cultura borghese (le famose bandiere lasciate cadere nella polvere e che vanno risollevate) e che il superamento possa avvenire solo attraverso assunzione piena delle istanze più alte della tradizione che si avversa.

La scoperta dell’illuminismo

Ma probabilmente c’è qualcosa di più, che attiene alla dimensione strettamente personale di un uomo combattuto in gioventù tra vocazioni che apparvero alternative, tra la dimensione di studioso e quella di politico, e dove la scelta esistenziale, compiuta infine, non si tradusse nel senso un po’ arido che Croce dava al termine di totuspoliticus (coniato appunto in una lettera a Togliatti) ma in una concezione della politica che pur autonoma e con le sue regole era inestricabilmente connessa alla cultura. Quest’ultima coltivata in forma autonoma, e che si era arricchita nel tempo di dimensioni in precedenza ignorate: si pensi al rapporto con l’illuminismo, completamente estraneo alla formazione giovanile torinese e ordinovista. Quel Togliatti che nelle memorie di Giulio Cerreti troviamo intento nei lunghi soggiorni parigini nella ricerca dei classici settecenteschi presso le librerie antiquarie è lo stesso che tradurrà il Trattato della tolleranza di Voltaire (in polemica con le tentazioni «clericofasciste» della nuova Italia) e che qui vediamo impegnato in discussioni su Pietro Giannone e sulla civiltà giuridica dell’illuminismo italiano.
Ma a differenza che nella cultura azionista, l’unica che in quegli anni riscopre in Italia l’illuminismo, questa acquisizione non si traduce in una ripresa del vecchio anticlericalismo, ma anzi in una attenzione più assidua al dialogo con le istanze profonde della sensibilità religiosa. In forma differenziata: sprezzante nei confronti di De Gasperi, affettuoso nei confronti di Don Giuseppe De Luca («lei è per me tra i pochi che, vivendo, della mia vita stati un po’ la compagnia e un po’ la fierezza» gli scrive il prete lucano in punto di morte, nel gennaio 1962). E in una lettera alla sorella di De Luca, a un anno dalla scomparsa, nel febbraio 1963, Togliatti chiariva i termini di questo rapporto: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel contatto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. Cercava e metteva in luce la sostanza della nostra comune umanità».

Il rigore parlamentare

L’ampiezza degli interessi culturali (unita a gusti in verità retrogradi tanto in letteratura quanto in pittura e musica) non lo spinge a divenire quello che oggi si definirebbe un «tuttologo», e questa consapevolezza del limite si riflette anche nel suo stile di direzione: «Voi mi considerate come quegli apparecchi automatici che ti servono a tua scelta, solo che tocchi un bottone, un pollo arrosto, o un bicchiere di birra o una caramella al miele» protesta scrivendo alla Federazione di Bologna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovietici» che i dirigenti del partito vorrebbero imporgli per celebrare la sua personalità, chiedendogli di posare per un busto: «Questo si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distruggere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto credesse alle difese argomentate dell’esperienza sovietica in cui si produceva, avendo però fin dal ritorno in Italia chiarito che quel modello non era importabile né da imitare in forma ingenua e ripetitiva.
Molto significativo è anche quel che emerge sulla concezione della democrazia parlamentare, che fu uno dei cardini su cui il Pci di Togliatti venne costruito. In un momento in cui i leaders politici si esprimono in parlamento come se si trovassero alla Sagra della Fettunta di Rignano, è istruttivo lo scambio di lettere del maggio 1964 con Pietro Nenni a proposito della decadenza della prassi parlamentare. Lo scadimento dello stile di lavoro dei parlamentari si registra nella «decadenza del dibattito e quindi anche dell’istituto parlamentare. Questi discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei partiti governativi e dei dirigenti del governo, e i voti che intervengono poi, a corridoi affollati, su posizioni elaborate in altra sede, sono un fatto assai grave». Già in una lettera a Giovanni Leone (presidente della Camera) del 23 luglio 1958 aveva condiviso il personale rifiuto, a norma di regolamento, dei testi «scritti» in precedenza e non sviluppati al cospetto dei deputati, avvertendo però che rispetto all’antica tradizione parlamentare il discorso politico, nell’epoca dei grandi partiti popolari, non poteva che assumere ormai «aspetti ben diversi dalla semplice dotta conversazione», soprattutto per chi rappresentava classi popolari e non proveniva dalle «classi colte, avvocati, docenti universitari, ecc.» e che pertanto nella stesura scritta trovava «assoluta necessità». Tempi molto lontani da noi, come si vede. E lo si comprende ancor meglio dalla chiusa della lettera, con il ringraziamento a Leone per l’aiuto finanziario a lui concesso dalla Camera per motivi di salute: «purtroppo si riscontra con troppa evidenza, in caso di infermità, quanto grande sia il divario tra la retribuzione che giustamente richiede un libero professionista, anche modesto, e quella cui dà diritto l’attività parlamentare». Non c’era una «casta», anche se l’antiparlamentarismo non mancava di certo negli umori atavici dell’ideologia italiana.
Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Togliatti e il trentesimo di Berlinguer si sono intrecciati. Sono figure che non vanno contrapposte, e Berlinguer fino alla fine degli anni Settanta si mosse in una linea di evidente continuità con alcuni capisaldi dell’ispirazione togliattiana, per poi intraprendere nell’ultima e breve fase della sua vita una ricerca bruscamente interrotta di cui nessuno può ipotizzare compiutamente gli esiti possibili. Sono stati anniversari che hanno evidenziato il sedimentarsi di «fortune» molto diverse, e quasi di mitologie differenziate, sostanziate spesso di empatia confusa in un caso, di fredda diffidenza (se non damnatio memoriae) nell’altro.

La «questione nazionale»

Probabilmente nessun cantante dichiarerà mai che votava comunista perché Togliatti «era una brava persona». Fu in effetti personaggio assai più rispettato e stimato che «amato» (se pure dopo l’attentato del luglio 1948 e nei funerali dell’agosto 1964 era emerso un profondo legame popolare nutrito anche di affetto). E certamente il mondo di Togliatti dopo mezzo secolo non esiste più, si è completamente dissolto in tutti i suoi presupposti, negli scenari nazionali e ancor più internazionali. Eppure mi sentirei di affermare che ci sono elementi di attualità maggiore nel lascito di Togliatti che in quello di Berlinguer (almeno così come viene vissuto e interpretato).
Se la «questione morale» di Berlinguer è ormai concetto largamente inservibile, esposto a tutti i moralismi e giustizialismi delle piazze, è soprattutto la «questione politica» che Togliatti ha lasciato in eredità ad assumere la dimensione di un enorme nodo irrisolto. Un grande partito di massa che rappresenti il mondo del lavoro, autonomo da poteri forti, gruppi di pressione e mosche cocchiere, incanalato in una democrazia parlamentare non eversiva dell’esistente e mediata da una Costituzione programmatica, un partito in grado di costruire con tenacia rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori, e che si fondi su una autentica partecipazione popolare e non su ristrette élites di intellettuali o piccole sette depositarie di dottrine immutabili.
Questo è mancato drammaticamente nel quarto di secolo che ci separa dall’eutanasia della creatura politica ideata da Togliatti, e attorno a questa assenza si consuma il vuoto, muto nella sostanza, chiassoso nelle forme, della politica italiana.