Una fabbrica di confezioni di inizio secolo a New York. Il laboratorio di maglieria di Barletta. Speculari i disastri delle due fabbriche avvenuti a un secolo di distanza, La Triangle Shirtwaist Company bruciata nel 1911 e la palazzina crollata in Puglia nell’ottobre del 2011: in mezzo alle macerie i destini delle operaie scomparse – la cara sorella, l’amata figlia – e le sopravvissute. Queste vicende da storia del movimento operaio sono avvicinate in progressione stilistica ed emotiva da Costanza Quatriglio in Triangle che sarà presentato al Festival di Torino il 26 novembre. Dall’orrore dell’evento, alla considerazione del lavoro, e infine alla testimonianza diretta, ma quanto emozionante, di una operaia che è uscita miracolosamente illesa dal crollo. Il film utilizza i materiali di repertorio con un gusto déco, geometrico e tale da destare lo stupore delle conquiste di inizio secolo: l’elettricità, i grattacieli che si innalzavano ad altezze mai viste, la produzione che sfornava merci sempre più numerose a salari sempre più ridotti. Perfino quelle battagliere manifestazioni operaie le cui tracce trapelano a malapena dagli Stati Uniti. Filmati d’epoca che si aprono davanti ai nostri occhi come pagine di libro, caleidoscopi dalla raddoppiata sorpresa, come trovarsi all’angolo delle avenues squadrate (e all’angolo di Washington avenue si trovava il palazzo in fiamme), si decompongono poi nella voce fuori campo della documentazione diretta, delle parole di chi visse l’incendio di quel nono piano chiuso a chiave per evitare che le operaie portassero via qualche pezzetto di merletto o si prendessero pause troppo lunghe. A New York la fabbrica che produceva le Shirtwaist, le camicette alla moda di allora, vita stretta, pizzi e maniche con spalle a palloncino, era stata in sciopero da febbraio, preceduta dal grande sciopero dei tessili dei ventimila nel 2008, e quando scoppiò l’incendio, qualcuno ebbe dubbi sulle origini di quel disastro. È ricordato come il più grande incidente industriale della storia della città, morirono 146 operaie, soprattutto immigrate ebree del centro Europa e italiane
Erano durati a lungo i picchetti, all’epoca vietati, nel corso dello sciopero. I padroni assoldavano i gangster contro le operaie che venivano arrestate tante volte che i giudici le conoscevano tutte per nome. Non esistevano norme antincendio, le tonnellate di tessuto accatastate erano infiammabili, l’illuminazione a gas. Solo dopo l’incendio si promulgò una legge che imponeva le norme di sicurezza. I due proprietari che avevano disposto di chiudere a chiave le operaie nel laboratorio erano al piano di sopra e si salvarono, e al processo che seguì furono assolti (in appello condannati a pagare 75 dollari a famiglia). Una storia che si ripete, ma anche una storia dimenticata, riscoperta solo da poco, tanto che neanche si conoscevano tutti i nomi delle vittime. Forza lavoro da macello.
Raccontano le operaie di Barletta che nella palazzina si sentivano scricchiolii sospetti, avevano avvertito anche il comune. La moglie del proprietario scese giù a dire a quelli che in strada stavano facendo lavori di demolizione di un’altra palazzina accanto che le mura tremavano e si sentì rispondere: «fate magliette? andate a fare magliette, qui ce la vediamo noi» ma quei rumori sinistri che si sentivano erano l’annuncio di un crollo (uno dei primi che si sono susseguiti negli ultimi anni nella cronaca italiana, neanche più metafore: crolli, esplosioni, smottamenti, esondazioni). Nel crollo di quella palazzina di tre piani, cinque furono le vittime tra cui la figlia quattordicenne dei titolari, uscita prima da scuola. Cinque vittime come quella Rosie Mehl, o Sara Cooper o Concetta Prestifilippo che persero la vita a New York. I racconti sono simili, la novità di andare a lavorare per la prima volta, di trovarsi insieme con le altre a pranzo e all’uscita, di ridere e raccontarsi problemi e gioie. Un’operaia, Mariella Fasanella estratta viva dalle macerie dopo essere rimasta ben sette ore sotto le macerie, è la testimone del racconto prima della tragedia, e poi della sua rinascita alla vita, al lavoro. Ne viene fuori un bellissimo racconto, la testimonianza di una donna forte e sensibile. Ha ricostruito tutta la sua vita dopo la tragedia (anche lei, così come avvenne con l’avvento del cottimo in America, ora lavora a pezzo, più maglie consegna e più guadagna (dieci euro, venti al giorno? non lontani dai 6,7 dollari a settimana delle operaie americane), descrive le caratteristiche del suo lavoro: «non devi avere pensieri né preoccupazioni, perché devi fare un lavoro che richiede concentrazione» fino a far diventare la macchina da cucire qualcosa di vivo con cui dialogare. Come in uno specchio scorrono le bobine delle grandi fabbriche americane, le operaie di inizio secolo altrettanto fisse sulle loro quattordici ore di lavoro, e dall’altra parte i fili di lamé dei nuovi capi che poi finiscono a sei euro sulle bancarelle e che salgono e scendono dai macchinari con le loro luminosità tentacolari. Dietro a questo volteggiare da ballet mecanique c’è la storia che si ripete, la vicenda umana del ventesimo secolo e oltre. Costanza Quatriglio con la sapienza e la profondità dei suoi racconti riesce a ricucire le vicende di un secolo di lavoro riempiendo lo schermo di emozioni con il ritmo delle immagini e delle macchine: quelle delle ragazze contemporanee le regala alle compagne di un tempo, tanto avranno avuto la stessa voglia di vivere e di ridere, si danno idealmente la mano.