La Tunisia non teme il terrorismo ed è pronta ad affrontare la nuova sfida per difendere la sua rivoluzione. Lo hanno dimostrato le decine di migliaia di tunisini che hanno risposto domenica all’appello a manifestare lanciato dal presidente Beji Caid Essebsi. Per la seconda volta in una settimana – la prima manifestazione era stata indetta il 24 marzo dal Forum sociale mondiale – i tunisini hanno invaso il boulevard 20 marzo che da Bab Saadoun porta al museo del Bardo. Il corteo, formato da donne, giovani, famiglie intere che sventolavano la bandiera rossa tunisina e cantavano l’inno nazionale, si è trasformato in una grande festa popolare per ribadire che «la Tunisia è il paese della pace e non c’è posto per il terrorismo».

Questo almeno è il sentimento diffuso tra la gente che ogni giorno invade le strade della capitale e frequenta i numerosi bar che negli ultimi tempi si sono moltiplicati nel centro di Tunisi, dove peraltro il controllo delle forze dell’ordine, anche in vista delle manifestazioni, resta abbastanza discreto. Nei momenti di concentramento naturalmente la vigilanza aumenta, con il controllo personale e delle borse: in piazza domenica erano vietate le macchine fotografiche, un oggetto ormai superfluo con la diffusione dei telefonini.

È difficile capire se quella dei tunisini è una consapevolezza che il terrorismo non si sconfigge con la paura, oppure se la maggior parte della gente non è nemmeno cosciente della gravità della minaccia che fino al 18 marzo aveva colpito soprattutto le forze militari sulle montagne di Chaambi. Proprio qualche ora prima della manifestazione di domenica, un’unità speciale della Guardia nazionale in uno scontro a fuoco sulle montagne di Sidi Yaiche (nel governatorato di Gafsa) aveva ucciso nove terroristi della falange Oqba Ibn Nafaa, una componente di Al Qaeda del Maghreb islamico (Aqmi). Tra le vittime anche l’algerino Lokmane Abou Sakr, ritenuto uno degli organizzatori dell’attentato al Bardo.

Che non è stato il primo attacco terroristico nella capitale, lo ricorda il grande striscione che pende da un edificio nei pressi del parlamento con le immagini di Chokri Belaid (l’avvocato del Fronte popolare assassinato il 6 febbraio 2013) e Mohamed Brahmi (deputato, colpito a morte, anche lui sotto casa, il 25 luglio dello stesso anno) con sotto una scritta: «Per non dimenticare».

Eppure proprio quelli che non possono dimenticare perché appartengono alla famiglia politica delle prime due vittime del terrorismo, il Fronte popolare, non erano presenti alla manifestazione di domenica, non potendo accettare di mischiarsi con gli islamisti di Ennahdha che hanno favorito la crescita dei gruppi salafiti e jihadisti in Tunisia.

Importante la presenza internazionale a Tunisi con i capi di governo di Italia, Francia, Belgio, Polonia, Algeria, Gabon, oltre al palestinese Mahmud Abbas, e diversi rappresentanti dei parlamenti.

I politici, ricevuti dal presidente Beji Caid Essebsi, che nel suo breve discorso si è rivolto a Hollande chiamandolo per errore «Mitterrand», hanno ridotto il loro corteo – evidentemente per motivi di sicurezza – al percorso che dal parlamento porta al museo dove è stata scoperta una lapide con i nomi delle vittime che ieri sono salite a 22. Certo non è stata la manifestazione di Parigi all’indomani dell’attacco a Charlie Hebdo, ma è comunque importante che la Tunisia non sia stata lasciata sola. Una solitudine già vissuta dai tunisini durante la rivoluzione e soprattutto nei mesi successivi alla vittoria islamista nelle elezioni del 2011. Finalmente sembra che l’occidente si sia accorto dell’importanza del processo democratico avviato qui dopo la rivoluzione, senza spargimenti di sangue. I tunisini hanno anche saputo reagire al governo islamista premiando un partito laico nel voto dello scorso anno.

Tuttavia i danni provocati da Ennahdha sono gravi, non riguardano solo l’incapacità di dare una soluzione ai problemi del paese e di aver investito solo nella reislamizzazione di un paese con una grande tradizione laica, ma soprattutto di aver collocato nelle istituzioni, e in posti chiave, islamisti con posizioni spesso estremiste. Il fondatore di Ennahdha, nel 2012, durante un incontro con i salafiti, ripreso in video, invitava i suoi interlocutori ad avere pazienza perché non si poteva prendere il potere se non ci si assicurava prima il controllo dell’esercito e di altre istituzioni.