Pubblicato negli Stati Uniti quarant’anni fa, nel 1975, Una perfetta felicità (Guanda, traduzione di Katia Bagnoli, pp. 376, euro 18,50) è il quarto dei sei romanzi che, insieme a due raccolte di racconti, una di poesie e quattro volumi di nonfiction, costituiscono l’intera produzione di James Salter, disseminata in oltre cinquant’anni. Scrittore, dunque, tutt’altro che prolifico, e al tempo stesso sempre leggermente decentrato rispetto alle correnti o alle mode che hanno scandito la produzione letteraria in quello che è ormai passato agli annali come il secolo americano.

È un decentramento, quello di Salter, necessario ancor più che voluto, e legato alle ragioni più profonde della sua poetica, di ciò che sembra indurlo, con cadenze lente e ritmi certosini, a dare forma alle sue storie e voce ai suoi personaggi. Fin dal romanzo di esordio, The Hunters, legato a doppio filo alle sue esperienze militari durante la Guerra di Corea ma anche totalmente alieno dal filone della letteratura bellica, e sempre più man mano che affinava la sua arte, Salter ha sfiorato i temi cari alla letteratura realista (la fuga dalle città e la suburbanizzazione, vera ossessione di Yates, o la crisi dell’istituzione famigliare, sulla quale Cheever ha costruito molti dei suoi racconti più memorabili) come a quella postmoderna e d’avanguardia (quasi tutti i suoi personaggi si muovono nel mondo dell’arte o inventano storie che potrebbero facilmente trasformarsi in raffinate mises en abyme dell’intreccio principale), senza però mai trasformarli nella sostanza autentica dei suoi libri. Una sostanza che, in realtà, sembra trovarsi sempre altrove, in una dimensione insieme più semplice e più vaga, aliena da ogni compiacimento programmatico.

In fondo, la poetica di Salter si può sintetizzare nell’epigrafe di Tutto quel che è la vita, il suo ultimo romanzo, da molti considerato la summa della sua carriera: «C’è un momento nella vita in cui ti rendi conto che tutto è sogno, e che soltanto le cose preservate dalla scrittura hanno qualche possibilità di essere reali». Un’affermazione radicale di fiducia nella propria arte, esaltata come unico baluardo in grado di strappare le esistenze dei personaggi che popolano le sue storie all’oblio e all’indistinto, che trova il suo perfetto corrispettivo nella miracolosa e lirica esattezza della prosa che scorre armoniosa di pagina in pagina. Tra i tanti scrittori che, da Richard Ford a Bret Easton Ellis, da Julian Barnes a Tim O’Brien, hanno subìto l’incanto dello stile di Salter, nessuno ha saputo coglierne la natura profonda con maggior chiarezza di Jumpa Lahiri, ammirata da una ricerca dell’essenzialità, da un’insistenza quasi flaubertiana sul mot juste e da un’economia di racconto che hanno pochi eguali nella narrativa dagli ultimi decenni.

Di questa essenzialità insieme spoglia e profondamente poetica, Una perfetta felicità è un esempio, se possibile, ancor più convincente rispetto a Tutto quel che è la vita. Giova a questo superbo romanzo, tradotto con finezza e rigore da Katia Bagnoli, una maggior concentrazione della storia, che ruota attorno a una famiglia newyorchese, marito, moglie e due figlie, e al suo lento, immotivato quanto inevitabile frantumarsi. L’assoluta originalità del libro sta nella scelta strutturale di Salter: il quale, pur collocando la vita di Viri, architetto di belle speranze, e di Nedra, donna vitale e irrequieta, dentro un milieu perfettamente riconoscibile (la borghesia americana più ricca e illuminata) e in un tempo storico che è possibile ricostruire attraverso i riferimenti al mondo letterario e teatrale (gli anni sessanta e i primi anni settanta), lascia che a scorrere sia soprattutto la vita interiore dei protagonisti, in un processo che allontana l’intera famiglia dal sogno di edenica perfezione che, nella prima parte del romanzo, sembra incarnarsi nella splendida casa a pochi passi dal fiume Hudson dove i quattro componenti di un nucleo ancora compatto e autosufficiente si sono stabiliti.

L’incipit del secondo capitolo – che contiene anche una delle poche indicazioni cronologiche precise concesse da Salter al lettore – è in questo senso esemplare: «Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume, del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a soffermarsi».

Una luce morbida, dunque, avvolge non solo le acque del fiume, ma, per traslato, le vite incantate dei personaggi: e subito dopo, con una perfetta zoomata, Salter ci porta a stretto contatto con la regina della casa, Nedra, illustrandone da un lato la dedizione alla famiglia, vero cuore della sua esistenza, e dall’altro la stravaganza, quell’essere sempre anche altrove nel quale consiste il suo irresistibile fascino e che prende vita nella «bocca grande, la bocca di un’attrice, emozionante, vivace». Per poi concludere: «Ha ventotto anni. La adornano i sogni, che porta ancora appiccicati addosso; è sicura di sé, serena, è imparentata con le creature dal collo lungo, i ruminanti, gli eremiti. È cauta, difficile da avvicinare. La sua esistenza è celata».

Nedra appare immersa nell’incanto e nella luminosa leggerezza dei luoghi, ma trattiene in sé una dimensione celata, un’irrequietudine sognante, una deliberata autosottrazione. Con un breve giro di frasi, di impareggiabile esattezza, Salter costruisce e anticipa l’intera progressione drammatica del libro, calandola dentro i personaggi e il loro mistero.
Light Years: questo il titolo originale del romanzo. Anni lievi, anni luminosi, quasi impalpabili, narrati lungo la scansione delle stagioni; anni che sembrano mantenere il loro incanto, tra feste comandate, cene, estati scandite dall’arrivo di ospiti spesso affascinanti, e che invece subiscono un lento, implacabile logorio, tra adulteri, disillusioni, sogni che ogni giorno sembrano più lontani, quasi inattingibili. Eppure, i ritmi quotidiani, con la loro compattezza rilassata, non perdono del tutto la capacità di illuminare e rassicurare. Tanto Viri quanto Nedra sanno che la loro vita «era due cose: era una vita, più o meno – se non altro era la preparazione a una vita – ed era un’illustrazione della vita per le figlie».

Questo costitutivo sdoppiamento tra la «preparazione a una vita» e «l’illustrazione della vita» è il vero cuore del romanzo, e Salter gli dedica pagine memorabili, che verrebbe voglia di citare per intero. I figli sono «la nostra messe, i nostri campi, la nostra terra. Sono uccelli lasciati liberi nell’oscurità. Sono errori rinnovati. Eppure, sono l’unica fonte da cui si possa ricavare una vita più riuscita, più consapevole della nostra». Illustrare la vita alle figlie è il sogno di Viri e Nedra: e tale rimane finché quella vita altra, cui ci si è preparati incessantemente e che rischia di scivolare nell’indistinto non arriva a reclamare il suo spazio, facendo precipitare il nucleo famigliare, e la casa che lo ospita e lo esalta, nel caos e nella rovina. Perché se è vero che «non esiste felicità pari a questa: mattinate tranquille, la luce che viene dal fiume, il fine settimana che ci attende», è altrettanto vero che basterà «la disgrazia di uno, un fallimento, una malattia», a mettere tutti e tutto in pericolo. Un tema semplice, depurato di ogni sociologismo, e raccontato tutto dentro i luoghi e dentro l’anima dei personaggi, senza mai accusare un passaggio a vuoto: non serve altro, in fondo, per scrivere un grande romanzo.