Era il turno degli avvocati degli Stati uniti, ieri alla Royal Courts, nella seconda udienza della due giorni giudiziaria in cui si compirà il destino del prigioniero politico Julian Assange, colpevole di giornalismo. E l’olezzo maccartista di tutta l’operazione permeava di sé tutto lo Strand.

Nonostante la giornata bigia e piovosa, davanti alla tetraggine gothic revival dell’edificio che ospita i massimi uffici giudiziari del paese c’erano forse ancora più manifestanti di mercoledì. Perché estradare Assange significa cestinare la Magna Carta.

SOTTO LE VOLTE archiacute, l’avvocata Clair Dobbin ha percorso le strade ben note in cui si articolano le accuse per il fondatore di WikiLeaks mosse dal Pentagono nel 2010 e sulle quali si basa la richiesta/pretesa statunitense di estradizione. Ha ribadito che non si tratta assolutamente di un processo politico, tanto meno di una rappresaglia scatenata dagli Stati uniti d’America contro il giornalista/hacker/intellettuale australiano.

L’infondatezza della motivazione politica risiede principalmente, ha sostenuto Dobbin, nel fatto che l’accusa – inizialmente mossa dell’allora presidenza Trump (che in campagna elettorale di WikiLeaks si era detto entusiasta) – è poi continuata dalla presidenza Biden.

Ha poi cercato di distogliere l’attenzione dai 17 capi d’imputazione di cui Assange è accusato in base a quel ferrovecchio giuridico che è l’Espionage Act (del 1917, una data che dice tutto), concentrandosi sull’hacking di un computer governativo in combutta con la whistleblower Chelsea Manning (perdonata dall’allora presidente Obama). Ha poi citato l’altra accusa mossa ad Assange da un hacker-delatore, l’informatore del Fbi Sigurdur Thordarson, un bel personaggino che ha poi ritrattato.

Dobbins ha anche enfatizzato l’accusa principale – aver messo a rischio la vita di individui coinvolti nei cablogrammi pubblicati da WikiLeaks – quando in realtà l’Espionage Act criminalizza ricezione, detenzione e pubblicazione di documenti riservati: accusa anche questa sostanzialmente infondata, come già acclarato dal processo a Manning.

Tutte le altre questioni, compreso il tentato omicidio di Assange da parte della Cia di Mike Pompeo e i microfoni nascosti nell’ambasciata ecuadoregna di due metri per due dietro Harrods dove si era rifugiato, saranno affrontate in una corte Usa.

È EUFEMISTICAMENTE superfluo ricordare la dimensione globale della saga Assange. In un’epoca in cui l’atlantismo si lecca le ferite, non riesce a fare di meglio che perseguitare per quindici anni uno che sta difendendo «i nostri valori», che ha dato la concretezza della sua carne al bla-bla neoliberale sullo speaking truth to power e che distingue il vero giornalista dalle sempre nutrite coorti di lacchè dell’informazione generalista.

Per questo la composizione sociale e politica dei collegi giudicanti non sorprende: tutti i giudici finora espressisi su di lui sono conservatori di nome o di fatto. (Dame) Victoria Sharp, che si pronuncerà – non è dato sapere quando – sulla sorte di quest’uomo annichilito da quindici anni di reclusione, è sorella gemella di Richard Sharp, presidente della Bbc dal 2021 al 2023, nominato dall’allora primo ministro Boris Johnson col quale si è poi sdebitato contribuendo a racimolargli un prestito di 800mila sterline.

Questi due giorni di udienza sono stati vissuti e denunciati in varie città del mondo: in Australia, Europa, Usa. A rappresentare l’Australia qui a Londra c’era il deputato Andrew Wilkie, a New York ha parlato alla folla l’attrice Susan Sarandon, l’artista russo Andrei Molodkin ha raccolto 16 opere d’arte – tra cui Picasso, Rembrandt, Warhol in un’installazione, Dead Man’s Switch, congegnata in modo da distruggere le opere se Assange dovesse morire in carcere. Alla fine della giornata, un corteo si è mosso in direzione di Downing Street.