Dell’amore, della morte e d’altri affanni: si potrebbe riassumere con questa facile e assai parziale formula l’ultimo tassello, in ordine di tempo, che lo svedese Per Olof Enquist, classe 1934, aggiunge ora al mosaico di un’opera ormai storicizzata come tra le più rilevanti e impegnative del paesaggio europeo. Ma appunto Il libro delle parabole: un romanzo d’amore (Iperborea, traduzione di Katia De Marco, postfazione di Sebastiano Triulzi, pp. 247, euro 15,50), per sua stessa e dichiarata natura, non sopporta semplificazioni sommarie peraltro impossibili in testo così stratificato, ricco di piegature tematiche, di punti di fuga temporali e spaziali, di lunghe abluzioni nel gran mare della memoria, di persistenti irradiazioni culturali e psicologiche, di testamentarie e spietate rese dei conti che in primo luogo non risparmiano il protagonista (l’autore medesimo) raccontato in terza persona affinché più libera e nodosa risulti la mano che lo colpisce (e ne colpisca dunque senza appello le colpe, le omissioni, le leggerezze).
Si tratta di un libro che felicemente avanza incespicando mentre scava, si apre, sprofonda nell’intimità delle stanze segrete, nei corridoi bui di una genealogia parentale impastata di puritanesimo religioso, di superstizione, di reciproco controllo, di diffidenza, di violenza psicologica, di irata fede veterotestamentaria, laddove ogni atto di rivolta e di insubordinazione alle leggi divine ha bisogno del nutrimento e dello schermo della follia, del deragliamento, del suicidio, persino dell’impulso omicida. Il tessuto narrativo non può non tener conto di un simile delicato reticolo di rapporti, di passaggi di testimone, di eredità – siamo, occorre insistere, nel rovescio assoluto e totale del sublime – e a causa di ciò, mai immemore di tanto ardente lascito e ancor prima del clima dentro cui fu allevato e cresciuto, non soltanto Enquist (com’è ovvio) non smette di chiedersi a che valse quel raggio tremendo di luce che trafisse la sua famiglia e se stesso, ma non fa che riaffidarsi a una simbologia e a una terminologia che a quella sfera spirituale rimandano come se quella soglia, una volta varcata e sia pure per obbligo, segnasse un’appartenenza e rappresentasse il codice di affiliazione a una comunità che sopporta certo l’apostasia sebbene marchiata, stretta tra desiderio e senso di colpa, tra eresia e obbedienza, tra peccato e liberazione o fuga, fedeltà e tradimento.
Così, ad esempio, nove sono le parabole cioè i capitoli – nove quante le pagine mancanti dal taccuino del padre taglialegna morto da settant’anni che la madre maestra aveva tentato di bruciare («lei non voleva che scrivesse poesie, perché era peccato, i versi d’amore sporcavano come melassa»); nove quante le sedute psicoanalitiche del già adulto Olof (terapia interrotta dal paziente dopo un gesto delle mani della dottoressa a significare il vigoroso disprezzo per un confessato transfert); nove in quanto quadrato di tre, simbolo della Trinità celeste ovvero di completezza, di miracolo, di compimento (ma anche: Gesù venne crocifisso all’ora terza e spirò alla nona).
L’autore, ormai vecchio e sotto lo sguardo della «mandria» degli amici morenti che lo circondano già pronti a farsi traghettare sull’altra sponda del fiume, pare non sapere se riuscirà o infine se sarà riuscito a scrivere il suo «romanzo d’amore» dedicato a quella donna cinquantunenne che nel luglio del 1949, in un pomeriggio caldissimo, gli procurò (lui quindicenne) beatitudine e illuminazione, uno stato di grazia che mai sarà in grado di dimenticare. Una sorta di tremore biblico sia pure non normativo, non autoritario, che lo lascia libero. Piuttosto l’impasse da superare, e il tradimento da mettere in atto, sarà quello nei confronti della madre che gli aveva instillato «l’angoscia del peccato» davanti alla scrittura, alla poesia e, in generale, per «ogni invenzione».
Annota e ricorda Einquist: «Il fatto che qualcuno diventasse scrittore, o pazzo e internato, o alzasse il gomito, o friggesse in eterno nell’olio bollente per aver rinnegato il Salvatore, poteva anche essere considerato normale, dal punto di vista biblico, a vederla così, come la vedevano in molti», ovviamente tra coloro i quali coltivavano il campo del Signore.
Non quello celeste allora, bensì l’amore terreno – nel mentre si produce il miracolo dell’«amplesso perfetto» – è in grado di redimere dall’oscurità, di rivelare la luce che salva e acceca nel cuore di un’«esperienza religiosa quasi smisurata». Olof riuscirà a rivedere quella donna molti anni dopo. Seduti entrambi sulla panchina più a nord di una piccola stazione, si parleranno per alcuni minuti, senza sfiorarsi, sfiniti dall’emozione e dall’ansia. «Posso scriverti una lettera?», chiede lui e lei, per tutta risposta, gli nega anche questa possibilità. Ma subito aggiunge: «Scrivimi una lettera quando sarò morta».
Che grande lezione di libertà!, verrebbe da esclamare, che limpida cascata di esemplare, laica didactica magna! Ma Enquist – il miscredente Enquist – intende continuare a bere, ostinandosi come un ragazzo, alla fontana del suo mistico amore, sempre servendosi delle parole del salmista e inseguito (e noi lettori con lui) dai fantasmi, a loro modo anch’essi esemplari, dell’alcolizzato Sibelius che non riesce a terminare la sua Ottava sinfonia, dell’immacolato Wittgenstein e dello spossessato Kierkegaard (ecco un’altra trinità). Quando, nell’ultima delle parabole, la donna muore lasciando alla giovanissima nipote l’incarico di avvertirlo, Olof si reca al funerale. Cerca di sapere e di capire di più di quella donna. Forse l’aiutano i due versi finali di una canzone di Tove Jansson intitolata Canzone d’autunno che la ragazza canta in omaggio alla zia. Essi dicono: «Forse amo meno di un tempo, ma sempre più di quanto saprai mai». Quasi a conclusione Enquist osserva: «C’era qualcosa in tutta quella storia, iniziata alla fine degli anni Quaranta, c’era qualcosa. Qualcosa che non riusciva ad afferrare. Affrettati, affrettati ad amare. Se era un messaggio, non arrivava a capirlo. Era morta. Morta. Ma quel finale: più di quanto saprai mai». Tuttavia, lui che dice di non saperlo fare, scrive infine e finalmente il suo romanzo d’amore affinché nulla rimanga in sospeso prima di attraversare il fiume fatale. Ma di fatto soltanto una promessa, un debito, una devozione, una dedica – ovvero qualcosa di impercettibile, di aereo, di sottile avrebbe potuto indurlo a scrivere Il libro delle parabole.