Mohammad preferisce non parlare in pubblico: che siano i suoi fumetti a parlare per lui. La gente segue con lo sguardo i cartoon appesi al muro, sorride, si fa cupa. Lungo la parete dell’Alternative Information Center di Beit Sahour (Betlemme), si susseguono celle di prigione, muri che dividono gli uomini, olive che si trasformano in bombe a mano.

Mohammed Saba’aneh, 36 anni, nato in Kuwait da una famiglia palestinese originaria di Jenin, è diventato in pochi anni uno dei più noti fumettisti palestinesi. Dal 2009 è membro del Cartoon Movement, una rete globale che è anche una piattaforma per artisti di graphic novel di tutto il mondo, dà loro uno spazio per farsi conoscere e per condividere idee, progetti, esperienze.

La storia del fumetto palestinese ha radici possenti, è uno strumento d’arte capace di arrivare con qualche tratto di penna al cuore della questione, di fare satira, criticare e smascherare in una tavola la faccia dei regimi e i loro scheletri nell’armadio. Il maestro indiscusso resta Naji al-Ali, il padre di Handala, personaggio simbolo della lotta palestinese per la liberazione, il piccolo rifugiato che da decenni non mostra il suo volto e assiste con amarezza al dolore del suo popolo e all’indifferenza del mondo arabo.

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«È stato Naji al-Ali a farmi iniziare – racconta Mohammad mentre ci mostra alcuni dei suoi ultimi fumetti – Da bambino, in Kuwait, mia madre mi raccontava la storia della Palestina attraverso le sue strisce. Quando ho cominciato a disegnare, non ho fatto che seguirne i passi. Non dal punto di vista stilistico, ma politico. Sento di avere il dovere di criticare il sistema politico palestinese, l’Autorità Nazionale e le tante fazioni che dividono il nostro popolo. Molti mi considerano il successore di Naji al-Ali, è un onore per ogni artista palestinese. Non penso di poter aspirare a tanto, ma c’è qualcosa che ci unisce: Al-Ali era un indipendente, non era legato a partiti politici. Proprio per questo motivo la sua arte aveva tanto potere».

Un potere che non si è mai affievolito: sui muri dei campi profughi della Cisgiordania, i fumetti dell’artista assassinato nel 1987 dal Mossad a Londra si susseguono, come se le pareti fossero le pagine di un giornale. La dimostrazione dell’influenza di un solo fumetto: «Il cartoon è l’arte visiva e la forma di comunicazione più semplice perché arriva a tutti, a chi ha educazione e a chi non ha avuto accesso all’istruzione – continua Mohammad – È un linguaggio che parla alle persone. Questo è il mio obiettivo, rappresentare il mio popolo e la nostra causa. È uno strumento doppio: è arte ma è anche politica. Io, generalmente, non utilizzo testo ma solo immagini, così da poter raggiungere anche altri paesi, uscire nel resto del mondo».

«Guardate i fumetti di Naji al-Ali, seguirete la storia della Palestina: il cartoon è il suo archivio – continua Mohammed Saba’aneh -. Alcuni dei miei fumetti raccontano l’attualità, gli scontri a Gerusalemme, la crescita delle colonie; ma molti altri approfondiscono problemi strutturali, dai prigionieri ai profughi. L’occupazione ripete se stessa: per questo è necessario mostrarne l’essenza, l’idea generale».

Con il tempo, Saba’aneh ha sviluppato una nuova tecnica, abbandonando il computer e tornando a penna e inchiostro. I tratti cambiano, a volte sono secchi, altre morbidi. L’obiettivo, come racconta l’artista stesso, è parlare al mondo, usare un linguaggio che sia comprensibile anche dove spesso si decidono (o meglio, si nascondono sotto la sabbia) le sorti del popolo palestinese. Questo fine rende necessario indagare temi che il mondo capisca: «La mia nuova mostra andrà a coprire questioni internazionali, dalla fuga dei rifugiati verso l’Europa alla libertà di espressione – spiega ancora Mohammad – I palestinesi sono parte di queste questioni. Così, magari, sarà più facile per chi vive fuori comprendere la nostra causa, avvicinarla alla propria e provare empatia».

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Chi segue le vicende palestinesi sa che molto spesso a far paura all’occupazione israeliana non sono solo attivisti politici e partiti. Anche chi fa arte, disegna, chi va in scena a teatro è pericoloso perché la potenza del messaggio ne esce quadruplicata. Mohammad Saba’aneh ha trascorso cinque mesi in una prigione israeliana, dal febbraio al luglio 2014. È stato arrestato al confine di Allenby, mentre tornava dalla Giordania. L’accusa ufficiale? Essere un sostenitore di Hamas e girare aiuti al movimento islamista, di cui non solo non ha mai fatto parte, ma che è spesso target delle sue critiche. Tanto da attirarsi accuse da parte di sostenitori del partito.

Quell’esperienza nella prigione di al-Jalameh, vicino Haifa, e poi in carcere in Naqab – in isolamento, senza la possibilità di vedere la famiglia o di parlarci al telefono – si è tradotta in una mostra, organizzata al Khalil Sakakini Cultural Center di Ramallah, lo scorso novembre: «La prigionia ha modificato il mio lavoro. Quando qui si parla di prigionieri si pensa agli eroi, come se chi fosse detenuto fosse felice di esserlo. Ma i reclusi sono esseri umani a cui viene a mancare la vita, la quotidianità, la famiglia, i propri sogni. Spesso si dimentica questo elemento. Così, quando sono stato rilasciato, ho organizzato un’esposizione chiamata Cella numero 28, il numero della cella dove ero in isolamento. Senza luce, senza nessuno con cui parlare, immaginarsi disegnare. Finito l’isolamento, ho trovato una penna e alcuni fogli e così, dentro il carcere, ho iniziato il mio lavoro: volevo mostrare l’essere umano dietro il prigioniero».

A sentirsi minacciato non è solo Israele: da tempo attivisti, artisti, accademici denunciano la censura e la repressione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. E Mohammad, che spesso pubblica per Al-Hayat Al-Jadida (La nuova vita), organo dell’Anp, non vuole porsi limiti. «A volte, criticare il sistema politico come faccio io non è semplice, sia per la censura dall’alto che per quella dal basso. Se non è l’Anp o Hamas che ti attaccano, lo fanno i loro sostenitori: una censura sottile che è comunque parte del sistema. Mi è successo spesso. Tale atteggiamento è la prova della divisione del popolo palestinese in fazioni: sembra che oggi riusciamo ad unirci solo durante periodi particolari, come quando avvenne l’attacco di Gaza del 2014».