Nel 2006, quando lo intervistammo per le pagine di questo giornale, Masao Adachi era una figura pressoché sconosciuta nel panorama cinematografico internazionale. Appena rimpatriato a forza dal Medio Oriente dove anni prima era stato arrrestato, era di nuovo in Giappone dopo 28 anni vissuti come sostenitore e guerrigliero per la causa palestinese. Nel 2006 erano ancora vivi Nagisa Oshima e Koji Wakamatsu, due registi con cui Adachi aveva a lungo collaborato come sceneggiatore ed attore ma ora, nel 2016, con la vecchia generazione ormai quasi scomparsa o inattiva – è quest’ultimo il caso di due grandissimi come Seijun Suzuki e Kiju Yoshida – dei ragazzi terribili che sconvolsero il cinema nipponico fra i sessanta e i settanta, ancora guerreggiante sulla scena resta solo lui, Adachi.

 

 

Non è forse un caso visto che il cinema nella concezione del regista giapponese, fin dai suoi scritti teorici degli anni ’60, è sempre stato indistinguibile dal movimento rivoluzionario, destinato a smuovere coscienze quando non a distruggere. Adachi continua a essere una sorta di stella impazzita nel firmamento cinematografico internazionale per le contraddizioni che ancora incarna la sua figura, scomodo non solo da un ovvio punto di vista politico ma ancora di più da una prospettiva dove arte e vita non sono scisse. Per queste ragioni le sue parole, le sue opere e la sua vita continuano a ispirare artisti e registi di vario genere e di varie provenienze geografiche; il regista francese Eric Baudelaire (The Anabasis) è forse colui con cui questa collaborazione artistica ha dato i frutti più interessanti, ma ci piace ricordare che anche il grande Lav Diaz due anni fa era impegnato in un progetto insieme a lui poi sospeso.

 

 

Da quel nostro primo incontro dieci anni fa, in un caffè di Shinjuku, l’opera di Adachi è stata piano piano riscoperta con retrospettive in tutto il mondo anche se per il regista è impossibile muoversi: le autorità continuano a negargli il permesso di uscire dal Giappone per i suoi passati legami con l’Armata Rossa giapponese e i movimenti di liberazione in Medio Oriente.

 

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Era il 2007 quando è uscito The Prisoner, il suo primo lungometraggio dopo la cattura, a più di trenta anni dall’ultimo film realizzato in Giappone prima della partenza per il Libano, e ora, nove anni dopo, è in alcune sale dell’arcipelago, dopo il passaggio a Rotterdam, la sua nuova fatica, Artist of Fasting. Si tratta di un film atipico e di difficile collocazione anche nell’opus del cineasta, in parte perchè la sua esperienza di vita non può che dare luce ad un’opera eccentrica e spostata di obiettivo rispetto alle produzioni «normali», e in parte per il percorso da cui ha origine.

 

 

 

 

Lo spunto produttivo iniziale infatti arriva da una commissione dell’Asian Arts Theatre di Gwangju in Corea del Sud. Dapprima si pensa a un’installazione o una performance, ma poi proprio per le restrizioni di spostamenti di cui è vittima Adachi, si trova un accordo e si opta per la realizzazione di un film. Significativo il fatto che l’opera sia stata proiettata per la prima volta lo scorso 11 settembre nel teatro sudcoreano, in un edificio che sorge dove nel maggio del 1980 ebbe luogo uno degli episodi più violenti della storia contemporanea del paese asiatico. Circa 600 studenti si ribellarono contro le politiche governative e vennero massacrati dall’esercito in una delle tragedie politiche che ancora oggi continuano a far sanguinare le coscienze della penisola.
Non c’è una vera e propria storia nel film, composto da varie vignette e scene che come lampi slegati fra loro appaiono sullo schermo, girando attorno a un concetto mutuato da un racconto di Kafka del 1922, Un digiunatore, la storia di un uomo che a si siede sul bordo di una stradina e comincia a digiunare.

 

 

In realtà le primissime scene di Artist of Fasting ci mostrano delle immagini dello tsunami che ha devastato le coste del Giappone nord orientale nel 2011, per spostarsi subito dopo su un gruppo di persone dallo sguardo torvo, «la cui anima e le cui vite sono state mangiate da qualcosa». Il film ha una struttura molto anarchica e secondo le parole del regista «ognuno deve vederci ciò che vuole e ciò che si sente». Ma le tematiche che affronta sono proprio queste, le tragedie della contemporaneità e il senso di disfatta interiore ben esemplificato nelle parole di monaco che prega giorno e notte davanti all’uomo che digiuna: «Viviamo in una prigione di libertà da cui non sembra esserci via d’uscita». In un mondo dove tutto o quasi è possibile, il vuoto che ci creiamo attorno diventa la nostra prigione.

 

 

Artist of Fasting appare quasi come un divertissement in cui tra grottesco e humor nero tutti cercano di impossessarsi dell’atto del digiuno dell’uomo: ragazzini che lo fotografano e mettono lo immagini su internet, studentesse che si denudano e si fanno fotografare assieme a lui e perfino una bizzarra dottoressa sadomaso che cerca in tutti modi di «salvarlo» dalla morte con una sorta di biopolitica ero-guro in salsa nipponica. Ma il film trabocca di materiali eterogenei e di citazioni più o meno nascoste: l’ossessione distruttiva dello stato verso le minoranze come gli Ainu e le popolazioni delle isole Ryukyu, ovvero Okinawa, che in un passato non tanto lontano venivano mostrate come fenomeni da baraccone a stregua di mostri. Violenza senza senso con stupri, necrofilia e yakuza che si impossessano dei soldi che ogni giorno vengono dati all’uomo, ora rinchiuso in una gabbia e «protetto» da un militare, e ancora un’associazione di artisti di strada che si impossessa della sua «performance», due monaci che attendono il suo satori dopo i 40 giorni di digiuno, un giovane aspirante suicida che cerca conforto e la costante e pressante presenza dei media che cercano di etichettare e dare un significato al suo gesto.

 

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In questo «caos pop» come è stato definito dallo stesso Adachi, che include anche donne giunoniche con falli giganti, gruppi che mettono in scena un falso seppuku e scene (vere) di torture da parte dell’Isisi, vanno segnalati degli intermezzi realizzati con dei bei disegni in stile antico e una performance del poeta Gozo Yoshimatsu.

 

 

Artist of Fasting è un’opera interessante e migliore del precedente The Prisoner, uno dei difetti però è che forse non si spinge troppo in là, nel senso che visivamente avrebbe potuto osare e sperimentare di più, diventare cioè una festa visiva come nelle migliori opere di Shuji Terayama. La seconda parte è visivamente più riuscita nel senso che il digitale acquista specificità e peso, uno dei problemi del cinema indipendente giapponese, e anche Artist of Fasting non sfugge a questo limite, non avere cioè ancora trovato un’estetica adatta per il digitale.

 

 

 

 

Il film resta comunque una visione che rinfresca, una panoramica della contemporaneità. Adachi ritorna in maniera indiretta alla teoria del paesaggio esplorata in AKA Serial Killer, non cerca di mettere ordine ma di far collidere il tutto in una caoticità surrealista capace di lasciar esplodere l’impasse in cui ci troviamo.

 

 

Come sempre a fine proiezione Adachi ha intrattenuto gli spettatori con la sua verve, invece delle domande del pubblico è stato proprio lui come un anarchico maestro a «interrogare» gli spettatori: «Ti è piaciuto il film?». «Che ne pensi? Cosa avresti fatto di diverso?». Nella fluviale conversazione col pubblico i temi toccati sono stati come sempre i più vari, dal suo soggiorno in Medio Oriente che lui scherzosamente chiama «il mio viaggio di lavoro», alla pressante situazione delle minoranze, come si diceva la popolazione degli Ainu che un tempo abitavano gran parte dei territori settentrionali dell’arcipelago, e sta tornando a prendere coscienza di sé e ad affermare la propria cultura. Così come la popolazione di Okinawa la cui lotta contro le basi americane e contro il governo centrale giapponese dovrebbe portare, secondo Adachi, all’indipendenza delle isole.

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Naturalmente ci sono state delle domande anche sul Medio Oriente e sulla crisi siriana – «Una vera tragedia umanitaria» – che in Giappone non è molto percepita e che ha una delle sue origini, secondo Adachi, nelle politiche di aggressione israeliane.
Riguardo al ruolo dell’artista, Adachi da sempre è stato convinto che uno dei suoi compiti principali sia quello di distruggere per far nascere qualcosa di nuovo. «Abe e Trump ha detto neanche troppo scherzosamente – sono perfetti in questo senso, Trump se eletto distruggerebbe gli Stati Uniti mentre Abe sta già digregando il Giappone». Se questo film è stato «quello che lo ha fatto più divertire mentre lo girava, il prossimo vorrebbe che fosse «più bum! più diretto» come un pugno nello stomaco. E questo per un artista che è alla soglia dei 77 anni e che economicamente non se la passa tanto bene, è un segno di assoluta vitalità e totale immersione nel medium arte/vita.