Parlare di animali, oggi come al tempo di Aristotele, è difficile, forse impossibile; e lo è perché implicherebbe il prendere in considerazione il punto di vista di un vivente che non parla, che non ci dice la sua, che se è dotato di occhi ci può guardare, ma senza proferire verbo (su quello sguardo l’ultimo Derrida ha costruito un’intera filosofia). E quel silenzio, che è più forte anche del ruggito del leone più terrificante, da millenni, da quando esistiamo come umani, non facciamo altro che provare a riempirlo. Non c’è discorso umano più comune, forse, del discorso sugli animali, e la filosofia esiste per provare a rispondere e a difendersi da quello sguardo. È umano quel vivente che parla degli animali non umani.

Il problema si pone, evidentemente, fin dall’inizio del nostro mondo, nella Grecia di Aristotele: L’anima degli animali Aristotele, frammenti stoici, Plutarco, Porfirio (a cura di Pietro Li Causi e Roberto Pomelli, Einaudi, Millenni, pp. LXXVIII-556, euro  85, 00) presenta per la prima volta tutti insieme i testi principali di questo dibattito potenzialmente infinito (insieme a una densa introduzione, accompagnata da una bibliografia ricchissima, e da nuove traduzioni che rendono gli originali greci in un italiano agile a comprensibile).

Il problema, da subito, è quello cui ci troviamo di fronte ancora oggi: che fare degli animali non umani, quelli che se possono ci guardano ma non parlano la nostra lingua, che è l’unica che conta, in questo gioco spietato.

Plutarco, ad esempio, nel Bruta Animalia Ratione Uti (circa 70 d. C.) per dare voce a questo inespresso e inesprimibile punto di vista, ricorre all’antico espediente di consegnare a chi non ce l’ha la parola. Immagina allora un dialogo fra Gryllos, un uomo che Circe aveva trasformato in maiale, e Odisseo, che vorrebbe di nuovo riportarlo alla condizione umana. Quale animale, pensa Odisseo, se potesse non vorrebbe diventare umano? La maga, che non lo crede, sfida Odisseo, il più astuto e facondo dei greci, a convincerlo. Gryllos è un maiale che parla: «Odisseo, te ne stai con Circe, è vero. Però tremi al solo pensiero che lei con l’inganno ti possa mutare in porco o in un lupo, mentre vuoi convincere noi, che viviamo circondati da beni che non hanno mai fine, a lasciarci alle spalle questi beni, e al contempo colei che ce li ha dispensati, per partire con te. E questo per tornare ad essere uomini, ovvero per trasformarci di nuovo negli esseri più disgraziati e infelici che ci siano al mondo?».

Nel dialogo di Plutarco con Gryllos la sua eloquenza sconfigge quella di Odisseo: la condizione animale è migliore di quella umana. Ma se Gryllos parla non può più dirsi un maiale, è diventato piuttosto un umano dalle fattezze suine. Per ascoltare la voce di un animale dobbiamo trasformarlo in una specie di umano. Ascoltiamo un animale solo quando smette di esserlo.
È il paradosso dell’animalismo, che si pone per i greci come oggi per noi: confrontare l’animale all’animale che parla, all’essere umano. E così, di volta in volta prevarranno le evidenti somiglianze oppure le altrettanto innegabili differenze. Sempre Plutarco, nel De Sollertia Animalium (80-85 d. C.): «gli animali, dunque, hanno accesso a forme di intelligenza che differiscono da quelle umane non tanto in termini di qualità quanto in termini di quantità e di grado». Tesi difficile da contestare, alla quale si oppongono tuttavia la parole del filosofo stoico Crisippo: «l’essere umano si differenzia dagli esseri animati privi di ragionamento non per il ragionamento espresso (poiché i corvi, i pappagalli e le gazze sono capaci di emettere suoni), ma per il ragionamento interiore». Se il riferimento è a ciò che è in potere degli umani, cioè il parlare le lingue, allora l’affermazione è difficilmente contestabile: il linguaggio umano è molto più complesso e complicato di qualunque sistema di comunicazione animale.

Ma il punto non è quanto gli animali non umani siano simili a noi umani, perché questo dipende da ciò che si va cercando e da come lo si definisce. Se a tornare è sempre la stessa domanda, ossia quanto sono simili a noi gli animali, e se il riferimento è l’essere umano, allora più un animale sarà ritenuto vicino all’umano più la sua vita sarà degna di considerazione e di rispetto. E così salviamo per esempio delfini, cani, scimpanzé, conigli e condanniamo all’inferno altri che non ci somigliano. Per Cleante, ad esempio, «i maiali hanno l’anima al posto del sale, che non permette alla carne di corrompersi»: il maiale è fatto per essere mangiato. Ma perché questa tremenda, e dagli echi sinistri, selezione? Il paradosso dell’animalismo sta nel fatto che, in fondo, è una forma di umanesimo: gli animali vanno salvati perché sono (quasi) come gli uomini, che sono il vertice della natura.

In realtà il problema siamo noi, sempre e solo noi. Per Porfirio, ad esempio, il campione del vegetarianismo (nel bellissimo trattato De Abstinentia, 270 d. C.), occorre astenersi dal mangiare carne animale perché altrimenti il nostro corpo rimane impuro, e non può elevarsi fino alla contemplazione divina. Certo, in questo modo evitiamo anche di causare sofferenza in esseri senzienti, ma questo è, per così dire, un benigno effetto collaterale. Il filosofo non mangia carne perché il suo sogno è partecipare «alle Olimpiadi dell’anima», in cui vince chi ha l’animo più spirituale e disincarnato: niente salsicce se si vuole andare in paradiso (un paradosso nel paradosso: essere vegetariani, ossia non mangiare carne animale, come effetto del disprezzo per la carne del proprio corpo). L’animale è sempre uno strumento. Forse i greci sono solo meno ipocriti di noi moderni, e non fingono di non sapere che l’animale è al nostro servizio.
Fra i testi raccolti nella antologia probabilmente il più interessante, per un lettore moderno, è l’Aristotele della Historia Animalium dove ci viene mostrato un mondo animale pieno di connessioni e incroci, in cui la descrizione delle caratteristiche umane – ragione, linguaggio, politica – non implica la svalutazione del mondo animale. Aristotele in queste pagine sembra più un filosofo delle differenze che quello del primato dell’umano sul mondo naturale. Nel Libro nono, ad esempio, il confronto fra umani e animali non è gerarchico, bensì appunto differenziale: «fra le bestie, alcune si fanno la guerra a vicenda, altre – come per esempio l’uomo – quando capita. L’asino e il cardellino sono in guerra fra loro. Questi ultimi trovano il loro nutrimento sugli acanti, mentre il primo si ciba degli acanti quando sono morbidi. Sono in rapporti ostili anche la cutrettola gialla, il cardellino e il fanello». È un passaggio straordinario. Uomo e cardellino vengono messi a confronto rispetto alla loro disponibilità alla guerra. Ma se il paragone avesse investito, per esempio il linguaggio, altre sarebbero state le somiglianze e altre ancora differenze. Ogni vivente diventa un fascio di caratteri: alcuni l’avvicinano ad altre forme di vita, altri lo allontanano. Una visione modernissima, che non mette i viventi lungo una scala, dal meno perfetto al più perfetto, l’uomo, ma li confronta in base a più di un criterio di classificazione. Certo, alla fine è sempre l’uomo a parlare e a scrivere trattati di zoologia, ma anche questo è un fatto: le rondini non scrivono.

E di nuovo si torna al punto iniziale: è impossibile parlare degli animali senza partire, più o meno consapevolmente, dal proprio punto di vista. L’animale è sempre raccontato, allegorizzato, umanizzato. L’antropomorfismo sembra inevitabile, eppure esiste un’altra strada, anche se radicale e difficilissima da percorrere. Ce la indica lo stesso Porfirio, che non mangia carne perché fa ingrassare e non la digerisce bene, in un passo letteralmente inumano, in cui parla della «vita giusta»: «prendere il necessario non nuoce né alle piante, se ci limitiamo a raccogliere ciò che esse lasciano cadere, né ai frutti, visto che li mangiamo dopo che sono morti. E non nuoce neppure alle pecore, dal momento che siamo più utili noi a loro con la tosatura e dividiamo il latte con loro offrendo, da parte nostra, la cura nei loro confronti. Per questa ragione, l’uomo giusto si presenta come uno che intende sminuire sé stesso in relazione alle esigenze del corpo senza per questo commettere ingiustizia nei propri confronti». Ora, che le pecore siano contente di essere tosate è sicuramente falso, però Porfirio coglie nel segno: per salvare gli animali, e le piante (e anche quei sassi che Heidegger ha cosi maltratto nei Concetti fondamentali della metafisica), l’uomo deve «sminuire sé stesso». Ecco dunque che questo passo è inumano.