In una lettera del 30 giugno 1890 al direttore del «Daily Chronicle», Oscar Wilde rispondeva così a una recensione al Ritratto di Dorian Gray: «La vera morale della storia è che ogni eccesso, così come ogni rinuncia, reca la propria punizione; e questa morale è artisticamente e deliberatamente soppressa a un tal punto che non enuncia la propria legge come principio generale, ma si realizza nelle vite di alcuni individui, e così diventa semplicemente un elemento drammatico in un’opera d’arte, e non l’oggetto dell’arte stessa». Quale sia l’eccesso (e la conseguente rinuncia) di Dorian Gray è presto detto e altrettanto approssimativo a dirsi: la vanità, la lotta contro la morte (o contro la vita, che è la stessa cosa), i rapporti con gli altri e «un esagerato senso di coscienza che gli sciupa i piaceri e lo ammonisce che la giovinezza e il divertimento non sono tutto al mondo». Gli stessi eccesso e rinuncia che innervano la morale de Il nostro caro ragazzo (traduzione di Martino Adani, Fandango/Playground, pp. 301, euro 18,00), ultimo romanzo di Edmund White dopo Jack Holmes e il suo amico. Un romanzo che, pur partendo, per stessa ammissione dell’autore, dal Sapho di Alphonse Daudet, rovescia il palinsesto del capolavoro wildiano restituendone più di un calco negativo: ovvero, un’interpretazione.

Protagonista è un giovane francese, Guy, trapiantato a New York, dove diventa uno dei più ricercati modelli del fashion-system. Pure, già solo attenendosi a questo dato ci scontriamo con il primo nodo tematico del libro, ovvero la contrapposizione tra Vecchio e Nuovo Mondo, perché negli Stati Uniti Guy può liberarsi dalle sue umili origini francesi ed essere ciò che nemmeno lui sa bene. Un nodo tematico che White (classe 1940) ha già più volte tentato di sciogliere, a partire da quello che è forse il suo capolavoro, La sinfonia dell’addio, passando per i suoi libri in parte autobiografici (da Un giovane americano a My Lives) e finanche nei volumi più letterari (tanto nella ponderosa biografia di Jean Genet, Ladro di stile, che in quelli, più snelli, dedicati a Marcel Proust o Arthur Rimbaud). E un nodo che, in Our Young Man (così in originale, mutuando proprio un’espressione proustiana), si esplicita nel ritratto dell’America reaganiana, della comparsa dell’Aids sulla scena gay, della gioia sfrenata e incosciente prima dell’apocalisse puritana degli anni novanta.

In questo paesaggio Guy si aggira portando sulle spalle il fardello di una bellezza che sembra non poter mai svanire, ma che intorno a lui miete tante vittime quante sono le sue relazioni più importanti: la prima, con Pierre-Georges, l’agente che capitalizza Guy almeno quanto tenta di proteggerlo preoccupandosi per il suo futuro, quando non sarà più chiamato, come sarebbe naturale che fosse, dagli stilisti del momento per sfilare con le loro nuove collezioni o quando dovrà smettere di posare per le copertine delle principali riviste di moda del mondo. Ma l’età d’oro di Guy non ha fine, almeno così pare. Il suo bagliore lo isola dal mondo e acceca coloro che tentano di avvicinarvisi per eguagliarlo. È quello che succede a Fred, anziano produttore cinematografico che solo in tarda età confessa pubblicamente la propria omosessualità ricercando nel culto dell’immagine, nel fitness e nella chirurgia plastica un ridicolo simulacro di eternità. Per fatale contrappasso, Fred, ovvero l’ordinario che si piega allo straordinario, è la prima vittima di quegli anni di incoscienza. Il suo addio a Guy è una lenta agonia cui si sovrappone l’amore di questi per Andrés, giovane studioso di storia dell’arte che per tenere il passo dell’amante, il suo stile di vita, finisce invischiato in un processo per traffico di opere d’arte contraffatte. I suoi apocrifi daliniani diventano, nel romanzo, una metafora della falsificazione del bello e del sacrificio dell’arte sull’altare del commercio. Ma così come la malattia allontana Fred da Guy, lo stesso fa il destino di Andrés, che spinge Guy, nella sua assurda gara contro il tempo, verso il diciannovenne Kevin, conosciuto, insieme al gemello, Chris, in una palestra. Tra i due si instaura un rapporto inedito per Guy: una sorta di discepolato in cui le parti si invertono. Per la prima volta non è lui a essere inseguito ma a inseguire. Ed è soprattutto su questo frangente che White prende le distanze da Wilde: se Dorian Gray, pur non privo di coscienza, è vittima della sua impulsività, Guy è vittima della sua passività; attraversa un’esistenza di lussi, sesso sfrenato e assenza di preoccupazioni materiali come un automa, straziato dallo sfiorire delle cose intorno a lui ma assolutamente incapace di fare alcunché per accompagnare quel decadimento.

L’eroe di White è un monumento all’incapacità e la descrizione appassionata e disincantata dell’inutilità pratica della bellezza. Guy forse è vacuo, come qualcuno ha scritto, ma non insensibile; appassionato ma non romantico; partecipe ma non coinvolto. In questo senso, al di là del contesto storico – tratteggiato dall’autore de La bella stanza è vuota con mano precisa e leggera, sincopata e stilisticamente invidiabile – la parte più toccante del romanzo è poco dopo i primi capitoli, quando Guy, ormai già famoso, torna in Francia pieno di «risentimento verso i suoi genitori, colpevoli di aver interrotto la sua nuova vita (in realtà non così nuova), la sua vita da bambino viziato, piena di soldi, libera da qualsiasi responsabilità, con un mucchio di sesso e baciata da un’eterna giovinezza». Qui, mentre parla al telefono con la madre che gli ha appena comunicato la morte del padre, Guy si domanda perché le persone mentano a se stesse, per subito correggersi: «Ma cosa dovrebbe fare?», si chiede, “Ammettere che quell’uomo le ha rovinato la vita?». Di nuovo Guy si scopre inetto. L’unica cosa che può fare per la sua famiglia è provvedere materialmente: con il denaro mette una distanza tra sé e i sentimenti, tra la sua coscienza e quel passato i cui strati, di fronte all’agonia paterna, «non scolorivano l’uno nell’altro, né il passato subiva in ritocco cromatico per meglio adattarsi alla tonalità del presente. Ogni evento conservava la sfumatura originaria e per Guy era impossibile revisionare un passato crudele e desolante per dare corpo a una nuova considerazione più sentimentale». Alla fine, quello che gli resta non è che una vita inautentica «perché legata all’effimero».

Ed è esattamente in queste pagine che White adombra, senza calcare la mano, la possibilità che quell’effimero non sia, tra le tante forme di esistenza possibile, la peggiore. È esattamente riportando questo dubbio che si emancipa da Wilde. Se in quest’ultimo, infatti, il sortilegio di Dorian Gray diventa una critica dall’interno alle contraddizioni dell’apparenza (che sempre cela il rovescio di un quadro su cui la realtà rimane impressa in tutta la sua abiezione), la condizione di Guy si traduce in una battaglia per la sopravvivenza a dispetto delle necessarie miserie del vivere. Ma anche la sopravvivenza altro non è se non uno stato transeunte. Di questo Guy prende coscienza solo nel finale del romanzo, quando, tornando da Andrés, ossia dall’uomo che si è sacrificato per lui, non può che passare a Kevin il testimone della sua maledizione: «so che potresti odiarmi, ma non dovresti. Ti ho reso uomo, o meglio, ho tirato fuori l’uomo che era nascosto in te, nascosto dietro il ragazzo, e l’ho nutrito. Sei la persona tra tutte che mi ha reso più orgoglioso: ti ho dato il diritto di sopravvivere e di prevalere».