Il 10 e l’11 giugno di due anni fa i media di tutto il mondo mostrarono immagini di una dolorosa drammaticità: centinaia di migliaia di persone sotto il sole cocente scappavano da Mosul, seconda città irachena, occupata in 24 ore dallo Stato Islamico.

Mentre le prime bandiere nere preannunciavano anni di barbarie, si fuggiva come si poteva: file interminabili di auto dirette nel Kurdistan iracheno; famiglie a piedi con addosso solo i vestiti e qualche borsa con gli effetti personali più cari; anziani e bambini sulla schiena di un asino. Alla fine se ne contarono mezzo milione, mezzo milione di sfollati interni nell’arco di due giorni.

Ne seguirono tanti altri, oggi Mosul non è più la ricca città che era nel 2014. Ha perso il suo mercato e la sua industria e buona parte delle sue confessioni: di cristiani non ce n’è quasi più l’ombra. Ora a due anni di distanza torna a risuonare lo stesso inquietante allarme: un milione di iracheni lascerà Mosul con l’intensificarsi dello scontro tra esercito governativo e islamisti.

I dati li dà la Croce Rossa, in vista dell’annunciata battaglia finale. «Fino ad un milione di persone potrebbero essere costrette a lasciare le proprie case nelle prossime settimane», si legge nel comunicato. E la situazione è già al collasso: sono oltre 3 milioni gli sfollati interni, altri 10 quelli che nelle zone d’origine necessitano di assistenza.

A leggere un simile numero la prima domanda che viene da porsi è dove tutte queste persone dovrebbero andare. Dove dovrebbero cercare rifugio? Le porte sono sbarrate. Baghdad da mesi non fa più entrare sunniti di Anbar e Ninawa per il timore che tra loro si nascondano islamisti, ma anche per evitare uno stravolgimento della settaria bilancia demografica.

Il Kurdistan iracheno ha scelto la stessa comoda via: dallo scorso anno, dopo aver accolto oltre due milioni di persone tra sfollati iracheni e profughi siriani, passare i confini controllati dai peshmerga è diventata un’impresa. Alla base sta l’iqama, ci spiegavano a novembre sfollati da Qaraqosh e Sinjar nei campi profughi della capitale kurda: «L’iqama è un permesso di residenza rilasciato dalle autorità di Erbil – diceva al manifesto Mohamed, palestinese di origine, rifugiato per la seconda volta – sulla base della garanzia presentata da uno sponsor kurdo. Solo con l’iqama puoi lavorare, muoverti liberamente, accedere ai servizi. In genere la ottengono altri kurdi e i cristiani, grazie alla chiesa locale. Per un sunnita come me è quasi impossibile».

Mohamed era riuscito a infilarsi dentro prima della politica delle porte aperte a metà: ora le sole chiavi che le fanno scattare sono etniche e confessionali. A dimostrazione che l’Isis ha annaffiato il terreno giusto per spezzettare l’Iraq. Mosul ne è lo specchio: mentre le organizzazioni umanitarie si preparano all’ennesimo flusso di disperati, nelle stanze dei bottoni di Baghdad e Erbil si organizza la controffensiva.

Nessuno vuole mancare l’appuntamento con una città che definirà l’Iraq che sarà. Il governo centrale opera su due fronti: l’inclusione delle milizie sciite e l’esclusione dei peshmerga. Nei giorni scorsi il premier al-Abadi ha ordinato l’ingresso delle milizie sciite (accusate di abusi contro le comunità sunnite liberate) nell’esercito regolare, sotto la propria diretta autorità. Un modo per tenerle a bada – e controllare meglio anche le influenze iraniane – e allo stesso tempo gestire in modo più efficace la battaglia finale. Resta da vedere quanto certe milizie, come le potenti Badr, stiano a sentire gli ordini del premier.

Sul versante kurdo, il governo centrale ha cancellato all’ultimo minuto un meeting previsto per il 22 luglio con rappresentanti di Erbil per discutere la controffensiva. Una marginalizzazione che, si dice a Baghdad, è figlia dell’incontro che il presidente kurdo Barzani ha avuto con gli Stati Uniti il 12, nel quale ha strappato 415 milioni di dollari in aiuti militari a Washington in vista proprio di Mosul. Giravolte di alleanze e antagonismi: al ministro degli Esteri iracheno Obeidi («Non faremo avvicinare i peshmerga a Mosul») risponde Erbil con un secco «Non lasceremo le aree liberate a Ninawa».

Dinamiche simili si registrano nella vicina Siria, dove a prevalere non è l’unità interna contro il nemico Isis ma le avverse ambizioni politiche. Così, ieri, mentre lo Stato Islamico giustiziava 24 persone nel villaggio settentrionale di Buyir, strappato ai kurdi di Rojava, nella provincia di Idlib raid aerei (forse russi o governativi) colpivano l’ennesimo ospedale: la denuncia arriva da Save the Children, organizzazione responsabile della clinica di maternità bombardata nel villaggio di Kafer Takhareem.

Un bilancio chiaro ancora non c’è, di certo sarebbero due i morti e tre i feriti. La clinica era l’unica di questo tipo nell’arco di 100 chilometri e garantiva assistenza a 1.300 persone al mese, tra donne e neonati.

Una settimana fa erano state cinque le cliniche danneggiate da un bombardamento di Damasco: una era stata colpita direttamente, le altre avevano subito danni da raid nelle zone vicine. Tra le vittime un neonato. Si muore anche di coalizione: giovedì notte raid Usa hanno ucciso, secondo fonti locali, 28 civili nella cittadina di al-Ghandour, vicino Manbij.