Napoli, 4 maggio 1799. La cattedrale era gremitissima e la folla, che attendeva spasmodica di vedere la miracolosa liquefazione del sangue raccolto in un’ampolla rituale, appariva impaziente: il sangue non si scioglieva. Pochi mesi prima, a gennaio, all’arrivo del generale Championnet e dei suoi soldati, la liquefazione era avvenuta regolarmente, sia pure in cerimonia privata, e da quel momento San Gennaro era stato accusato pubblicamente di essersi fatto «giacobino». Ma ora la situazione era cambiata: le truppe inglesi e l’armata dei lazzaroni sanfedisti del cardinale Ruffo si stavano pericolosamente avvicinando a Napoli e i francesi, temendo un’insurrezione, presidiavano i punti nevralgici della città.

A voler credere a un testimone oculare, il diarista e ufficiale Paul Thiébault, il Presidente del governo napoletano, posto di fronte alla pericolosa impasse, avrebbe allora tentato una mossa estrema: si sarebbe avvicinato all’Arcivescovo di Napoli e – facendogli intravedere una pistola nascosta nel gilet – gli avrebbe sussurrato: «Se il miracolo non si compie in fretta voi siete morto». Detto fatto, il sangue si sciolse.

È solo uno tra i tanti episodi, favolosi e stranianti, raccontati da Francesco Paolo De Ceglia in Il segreto di San Gennaro Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, pp. XVI-416,euro 32, 00) una ricerca possente e minuziosa, condotta con garbo e grandi mezzi culturali, e soprattutto scritta benissimo, con uno stile incisivo e per quanto possibile – data la complessità dei temi trattati – chiaro. Perché sebbene il sottotitolo ammiccante reciti «storia naturale», la sua più giusta definizione avrebbe dovuto essere «storia intellettuale».
Il centro del libro non è costituito, infatti, dalle pratiche di devozione e dalla dimensione sociale della ritualità sacrale di una città sovrabbondante di «miracoli», bensì dai mutevoli quadri concettuali volta a volta elaborati per «spiegare» il fenomeno e, in sostanza, la cultura che lo ha identificato come tale. Un percorso affascinante, intessuto di ragionamenti sui confini tra la natura e la fede, tra la vita e la morte, tra ciò che può essere conosciuto e quanto resterà assolutamente ignoto.

La storia ha inizio il 17 agosto 1389 quando durante una processione delle reliquie di San Gennaro, martirizzato agli inizi del IV secolo, si verificò per la prima volta il fenomeno della liquefazione del suo sangue raccolto in una ampolla. Non era un caso del tutto eccezionale, a quel tempo. L’Europa pullulava di reliquie ematiche di vari santi nonché del sangue di Gesù Cristo, e alle reliquie erano variamente connessi miracoli disparati: a Bari, ad esempio, le ossa di San Nicola trasudavano manna. Ciò che c’era di particolare nel «miracolo» di San Gennaro, era la sua incostanza: normalmente solido e di colore bruno, il suo sangue talvolta si scioglieva guadagnando un colore rosso brillante. Era insomma instabile, incostante, mutevole in modo inquietante.
Cominciarono allora due processi importanti, mirati entrambi a rendere il miracolo gestibile e perciò a «regolarlo». Da una parte lo si inscrisse in un cerimoniale in grado di esaltarne la fruibilità collettiva, magari mitigandone la imprevedibilità; dall’altra lo si spiegò, in modo da rendere conto, pur nel quadro di un fenomeno soprannaturale, della ragione del periodico scioglimento. De Ceglia mette in luce molto bene come questi due processi siano interrelati e, oltretutto, promossi dagli stessi individui.

Ne viene, da un canto la fissazione di un calendario cerimoniale che prevedeva una liquefazione periodica, a giorni fissi; dall’altro la teoria secondo la quale il ribollire del sangue sarebbe procurato dall’avvicinamento delle altre reliquie del Santo, e segnatamente del capo, conservato in un ricco reliquario antropomorfo. Il cambiamento di fase del sangue dipenderebbe così dall’interazione tra le due reliquie. Il corpo del Martire, una volta avvicinatesi due sue componenti fondamentali, il capo e il sangue, riprenderebbe «a vivere»: «il sangue prezioso che si vede duro come un sasso, tosto che scuopre il suo venerando capo si vede liquido e spiumante come s’hallora uscito fuse dalle sacre vene: miracolo veramente stupendissimo, ch’eccede ogni altro miracolo».

Naturalmente, con la riforma, queste credenze subirono attacchi feroci da parte protestante, attacchi che cercarono di naturalizzare il fenomeno facendo leva sulla credenza, assai diffusa nei paesi nordici, della «cruentazione»; e cioè la convinzione che i cadaveri di individui deceduti di morte violenta siano in grado di reagire alla presenza dei propri uccisori emettendo sostanze organiche. Si avanzò così l’ipotesi che il cranio non fosse quello del Santo ma quello del suo carnefice. Come mostra bene De Ceglia, qui il contrasto non è dunque tra la superstizione meridionale cattolica e la razionalità settentrionale protestante, ma tra due diversi «stili di credenza». Uno, quello cattolico, orientato al soprannaturale, l’altro, quello protestante, più propenso alla dimensione magico-naturalistica.
Diverso ancora il panorama intellettuale settecentesco, dominato dalla logica dell’esperimento e dall’idea di replicare il fenomeno mediante pozioni di derivati di ferro e altre sostanze capaci di reagire, sciogliendosi, al calore o allo scuotimento. Ancora una volta, però, questa diversa dimensione, diciamo così sperimentale, non contrappone un nord scientista a un sud oscurantista, se è vero che a un Caspar Neumann, capace di intrattenere la corte di Berlino nel 1734 con un esperimento volto a svelare il «trucco» del sangue di San Gennaro, faceva eco a Napoli la costruzione, da parte del principe «illuminato» Raimondo di Sangro, di una macchina capace di riprodurre la liquefazione del sangue.

Le diatribe sono continuate fino a oggi e hanno coinvolto spiritisti e socialisti, gesuiti e massoni, maghi e sacerdoti, antropologi e mangiapreti, chimici e scienziati di diverso orientamento: la Chiesa infatti, pur proteggendo il culto, non ha mai dichiarato il fenomeno come miracoloso, sicché la fedeltà al cattolicesimo non ha implicato, di necessità, la credenza nella liquefazione miracolosa. Se un giorno tutto questo finirà, scrive saggiamente De Ceglia, non sarà perché qualcuno svelerà il «trucco» di San Gennaro ma perché cambierà la sensibilità verso queste forme di devozione.

Giusto, ma resta un rimpianto. Se nella sua fantastica traversata dei secoli De Ceglia avesse applicato lo stesso criterio, avremmo avuto una storia anche «sociale» e non solo intellettuale del «miracolo» di san Gennaro. E questa ci avrebbe fatto meglio capire, accanto agli aspetti della religiosità napoletana, dagli ex voto alle preghiere di intercessione, anche vicende che restano un po’ all’ombra di questo saggio: per esempio, il tentativo da parte popolare di appropriarsi della processione, il sostegno assicurato dai Gesuiti al suo culto, la protezione miracolosa accordata dal Santo alla città in occasione dell’eruzione del 1631, la competizione con gli altri Santi patroni di Napoli e quella, tutta politica, con Sant’Antonio di Padova. Durante la Restaurazione, infatti San Gennaro subì una sorta di ostracismo e pare che gli imbrattatele della rua catalana esponessero un quadro in cui Sant’Antonio armato di verghe sferzava san Gennaro che scappava. L’ostracismo sarebbe finito solo con l’arrivo solitario di Garibaldi in città nel 1860: e davanti all’Eroe dei due mondi, come (quasi) sempre, San Gennaro «fece» il miracolo.