Gran parte dell’ultimo contemporaneo con i suoi bastioni massmediologici e addentellati social sempre più pervasivi, è divenuto per certi aspetti costitutivamente una entità pigra, appiattita su una dimensione unica, quella presente; il presente che mangia presente da questo giogo che ci unisce e incardina ad una quotidianità seriale, si fa sempre più fatica a uscire e penso che gli strumenti narrativi ed ancor più quelli poetici, molto hanno fatto nel loro moto continuo di liberazione dell’uomo e tanto possono ancora, davanti alle schiavitù odierne legate in forme sempre nuove al cappio dell’ego e dell’accumulo. La parola poetica può farci ritrovare quel movimento dello spirito, quel Douve originario come direbbe un libro di Bonnefoy, che sempre è stato in noi ma che oggi sembra più che in altri momenti, cloroformizzato dalle magnifiche sorti digitali.

Ora Roberto Mussapi nel suo ultimo libro La piuma del Simorgh, edito dalla collana mondadoriana de Lo Specchio (pp.101, euro 18) si riappropria appunto di quel movimento dirigendo la sua scrittura come una sonda nelle profondità dei territori alla ricerca delle ere culturali e di senso della nostra civiltà ed ecco riaffiorare nella pagina, come un reperto vivo, qualcosa che con forza vuol parlarci, anche in questo presente social, di cosa?: della voce dell’origine di donne e uomini, perché voce oracolare, essenziale, aderente a quel battito iniziale così assoluto da cui tutti veniamo ma di cui avanzando nei tempi abbiamo perso quasi ogni traccia. Eccola nel libro, quella voce, divenire narrazione e psicologia del profondo: «…/Questo è un tempo di rinascita, io sento/in ogni battito del mio cuore un mutamento/in qualche cosa di inusitato e strano/che un giorno vidi nel Carro, poi nei tuoi occhi».

Mussapi ha saputo captare il dolore e la gioia dei tempi, dando a essi uno spazio di libertà ed espressione estrema che s’irradia in storie che sembrano tutte adunarsi e parlare proprio da quella piuma del Simorgh, uccello divino e signore di ogni cosa secondo la mitologia persiana. Ed è limpida nel libro la vicinanza con i metafisici inglesi sino a John Donne e poi in vario modo con l’altissima poesia italiana del novecento di Luzi, Bigongiari, Caproni e con quella francese dello stesso Bonnefoy; ma la scrittura di Mussapi riesce, sulla scia di questi grandi, a dirci qualcosa di ulteriore, di precipuamente suo: l’ascolto del corpo, con i suoi abissi, le sue luci. Ecco allora nelle pagine il corpo del contemporaneo con i suoi picchi di afasia e ansia ma anche il corpo lontano e silenzioso della Maria dei Vangeli, il corpo di Achille al suo ultimo respiro («Era debole l’anima, in quel tempo,/ma oscura, presente./…/ Fu un attimo felice la mia morte./ Ora lei non deludeva il mio corpo, scomparendo,/ ma lo prendeva in sé, a brandelli/ di me bambino, di me adolescente, /lei mi faceva carne, oltre, finalmente»), il corpo del migrante giù nella stiva che sogna la città della luce, il corpo forse del poeta stesso che, con una immagine commovente per nitidezza, sembra parlarci da una fanciullezza che non muore, tanto lavora quel mondo lontano con la sua brace in ogni tempo.

E la narrazione fatta tutta di metastorie sbalza il lettore dall’oggi all’ieri portandolo verso un domani tutto da decifrare; ecco l’uomo di Mussapi forse è visivamente l’homme qui marche novecentesco che più cammina, più torna alla sua memoria e riguardandola, scrutandola s’accorge che non è più sua, a chi appartiene?: alla visione di altri, alla catena dell’umanità. Ma il camminare premia e La via per Xanadu, titolo della seconda poesia del libro, dove Xanadu è la città fatta edificare nel 1215 nella Mongolia interna dall’imperatore kublai khan e visitata da Marco Polo che ne scrisse nel Milione è una via sempre attuale, oggi come ieri, tutti dovrebbero averla come bussola interiore; una via dove arrivando sembri mai arrivare e ricercando sembri già aver trovato la via che porta alla passione, all’amore per ogni cosa che seppur minima ha bisogno di esser detta e fatta in quel preciso giorno, in quel preciso momento, sempre sacro per il poeta, per Roberto Mussapi.