Di Henri Rousseau, detto il Doganiere a causa del suo lavoro (in realtà era impiegato al dazio), conserviamo fin dai tempi della scuola un’immagine stereotipata: personaggio bizzarrissimo, con un mestiere kafkiano, autodidatta, cresciuto artisticamente in solitudine, avvolto da foreste lussureggianti che forse gli apparivano in sogno. Nonostante le sue esotiche giungle, infatti, come Salgari non si mosse granché dal suo paese natale. E fu costretto a inventare la leggenda di un viaggio in Messico per giustificare quelle visioni allucinate. Ma il vero Rousseau è tutt’altro: outsider a metà, uomo dalla mente versatile, amante della musica e del teatro, oltre che della pittura italiana di maestri come Paolo Uccello e Piero della Francesca. Illetterato non lo fu mai.
L’esposizione di Palazzo Ducale, Henri Rousseau. il candore arcaico (6 marzo – 5 luglio, catalogo 24Ore Cultura), a cura di Gabriella Belli, che dal 2011 dirige i Musei Civici di Venezia e di Guy Cogeval, presidente del parigino d’Orsay, ha l’ambizione di sfatare il mito del «pittore sgrammaticato», mettendo in scena non solo lui, ma una «tribù» dalle forti affinità elettive.

«È la prima mostra che si fa in Italia su Rousseau – spiega la curatrice Gabriella Belli – anche se bisogna ricordare che nel 1950 la Biennale gli dedicò una sala con una ventina di opere. Nessuno lo notò allora perché arrivarono i Fauves, Picasso e Kandinskij. Venne considerato di retroguardia e passò inosservato. La rassegna ha un obiettivo preciso: cercare di capire come mai questo eccentrico pittore dipingeva in una maniera assolutamente diversa da tutto ciò che avveniva in quegli anni a Parigi».

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Non è mai facile leggere le opere di questo artista nella giusta direzione, si è tentati da formule semplificatorie, di immediata comunicazione. Qual è stata, dunque, la formazione di Rousseau?
Henri Rousseau era in contatto stretto con la pittura accademica, Gérôme e Clément lo incoraggiavano e fu proprio grazie all’interessamento di quest’ultimo che ottenne la tessera di copista al Louvre. Aveva anche un attestato come professore di disegno e pittura per pubblico adulto non pagante. Sapeva, dunque, cosa fosse la bella pittura e il suo mito era William-Adolphe Bouguereau: quando andava ad acquistare i colori, voleva che fossero uguali all’incarnato dei suoi quadri. Dall’altra parte, Rousseau viveva circondato dalle avanguardie ed espose nella prima mostra dei Fauves. Anzi, quel nome – selvaggi – derivò proprio dal soggetto del suo dipinto (Leone affamato, ndr). Viveva dentro questo circolo di grandi esperienze e novità, eppure procedeva diretto per la sua strada. Con una pittura che non avrà né un prima né un dopo in tutta la sua vita – iniziò a dipingere nel 1885 e morì nel 1910. Non cambierà mai stile: Gérôme e Clément lo invitarono a continuare così, senza calamitarlo all’interno dell’accademia.

Era anche un gran disegnatore…
Abbozzava qualcosa andando in giro, ma poi il metodo era all’antica, non en plein air. Forse è proprio per questo motivo che Gérôme e Clément lo amarono tanto. Rousseau ripristinò l’importanza del disegno nella pittura dopo che era svaporata con gli Impressionisti.

Una pittura la sua che nasceva comunque dalle frequentazioni della avanguardie…
È una pittura piatta, bidimensionale, raffinatissima nel dettaglio e nel disegno, con una grande capacità narrativa, che presenta anche un lato incantato, anticipando il tema del Realismo magico. L’esposizione veneziana vuole fare il punto sulla sua influenza non solo sui Fauves (paternità del nome), ma sul Blaue Reiter di Kandinskij e la pittura italiana del post Futurismo, soprattutto Carrà e Morandi. Che, quando escono dal Futurismo, si guardano attorno. «La mia pittura ricomincia da Rousseau», asserisce Carrà. Il particolare realismo dell’artista francese è virginale, non è la fuga esotica di Gauguin, né il recupero della scultura primitiva, ma ha una sua autenticità che è per il gruppo del Cavaliere Azzurro, gli italiani di quel periodo ma anche per Delaunay, assai interessante. Rappresenta una terza via. Kandinskij conobbe Rousseau fra il 1906 e il 1907 a Parigi. Acquistò dei suoi paesaggi: tra questi, Il cortile che nel 1912 verrà pubblicato nella locandina della prima mostra del movimento. Kandinskij era affascinato dall’afflato spirituale di Rousseau. L’italiano Ardengo Soffici, in pieno futurismo, lo incontrò a Parigi, anche lui comprò suoi disegni e una natura morta (in mostra): Rousseau diventerà così una figura fondamentale per il Ritorno all’Ordine, per quella parentesi legata all’arcaismo dei primitivi italiani di Valori Plastici e del Carrà del 1915-16.

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Cosa si può dire, invece, del suo carattere?
Era un omino un po’ noioso, chi legge le lettere lo trova pedante. Scriveva in maniera ossequiosa ai capi gabinetto del ministero, offrendo i suoi quadri, che regolarmente venivano rifiutati. Aveva però un carattere allegro, amava la musica, la pittura e il teatro. A Palazzo Ducale riproponiamo l’ascolto del suo valzer più famoso, Clémence, dal nome della prima moglie. Verrà anche recitata la poesia che Apollinaire compose per lui in occasione del banchetto di Picasso al Bateau Lavoir, mentre con l’epitaffio – sempre scritto da Apollinaire – si chiuderà il percorso espositivo. Rousseau non era un solitario, aveva intense frequentazioni, andava a tutte le serate e le faceva lui stesso, era pure un grande amatore. Aveva avuto una storia personale particolare. Accusato per un furtarello, da giovane era stato condannato. Detto ciò, era la sua pittura a sedurre il mondo dell’arte: esprimeva qualcosa che nessun altro aveva trovato.

Dove possiamo collocare oggi Rousseau se non vogliamo più ricorrere alla sua «naïveté»?
Rousseau è un caso isolato, ma intercetta una linea di pittura arcaica, che sale e scende parallela a quella classica, confondendosi talvolta con la pittura delle classi subalterne. In mostra esponiamo alcuni ex voto, tra cui quello che Kandinskij pubblicò sull’Almanacco del Blaue Reiter: Anche Rousseau traeva linfa vitale da una cultura figurativa popolare, in questo era vicino ai pittori americani tra Sette e Ottocento. Malraux sarà il primo a proporre questo riferimento. In tanti lo hanno paragonato ai primitivi italiani – Giotto, Cimabue – soprattutto con il recupero del Medioevo e  il libro di Lionello Venturi, Il Gusto dei primitivi. Fu Malraux, però, nel suo Il museo dei musei, ad accennare per primo al tema della contiguità: non una influenza, ma la constatazione che, a lontananze siderali, accadevano cose quasi uguali. È questa la terza via che Rousseau intercetta e che aprirà al Surrealismo.

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La mostra presenta tutti artisti che hanno avuto una relazione con Rousseau, abbiamo privilegiato le consonanze. Oltre ai maestri d’accademia, troviamo Cézanne perché amava i suoi neri e anche Seurat: fu uno dei pochi del gruppo storico, insieme ad Apollinaire e Brancusi, a essere presente al suo funerale. Nel percorso, ci sono quarantuno opere di Rousseau e sessanta sono invece quelle di raffronto. In vita, lui dipinse più di trecentoventi quadri, ma una buona metà ha una collocazione sconosciuta.