Un magnifico balletto di cittini, los muchachos del Trejo. Saltano la corda, tirano montanti e diretti con guantoni grandi come le loro testoline, si piegano sulle gambe e in gruppo indietreggiano e avanzano ritmicamente, seguendo le parole dell’allenatore. Sono ragazzi di dieci-dodici anni, spesso seduti a terra, a raccontare della rivoluzione di Cuba e della storia del pugilato. Una disciplina severa e un profondo senso civico e allegria diffusa.

Sorridere e chiacchierare sono gli ingredienti principali del popolo cubano, almeno nel film-documentario Gancho swing, un lungometraggio di due ore, tutto parlato e rilassato, ricco di lunghi discorsi e ricordi di avvenimenti famosi, girato da Giuni Ligabue e Chiara Gregoris, entrambi attivi nella rete delle palestre popolari bolognesi, autori del libro Pugni e socialismo, Storia popolare della boxe a Cuba (Redstar Press, libro+dvd, euro 15), la traccia scritta dell’intera vicenda filmata.

Giraldo Cordova Cardin

Tutti i ragazzini sanno parlare di Giraldo Cordova Cardin, il pugile bravo e imbattuto, caduto nell’assalto alla Caserma Moncada, nel luglio 1953, immortalato da una poesia anonima «Giraldo Cordòva/candidato al titolo/per le sue rapide mani/per il suo punch che poteva/ lasciare una leggenda d’ossa rotte/per l’ansioso danzare delle sue gambe/perfetto il gioco sciolto delle sue spalle…».

In fila, lanciando pugni a destra e sinistra, sembrano i piccoli eredi dei Mambises, quelli che hanno combattuto per l’indipendenza e la libertà, già un secolo e mezzo fa. Meno ricordato è Havana Bon Bon ossia Kid Chocolate ossia Eligio Sardinas Montalvo il primo pugile cubano a diventare campione del mondo (dei superpiuma dal 1931 al 1933), quello che ha iniziato uno straordinario stile di danza sul quadrato, 10 sconfitte su 150 combattimenti negli States, poi il ritorno a Cuba, l’apertura di una palestra, omosessuale discriminato dal governo cubano castrista fino alla tardiva riabilitazione, osannato come un precursore dell’attuale scuola cubana di pugilato. E tutti sanno dove abita Felix Savon, pugile stravittorioso (7 titoli mondiali, 3 panamericani, 4 centramericani e 3 Olimpiadi), protagonista di una lunga intervista, nel salotto di casa, tra folgoranti imprese olimpiche nel segno del deporte de pueblo e amici che passano a salutarlo, parlargli, intrattenerlo.

Naturalmente, ci sono stati anche alcuni fan italiani che si sono portati a casa, per semplice furto, una delle sue medaglie d’oro, quella vinta a Sydney 2000, le altre sono su un mobiletto dimesso, tra un divano e alcuni dipinti, con le foto di Fidel e gli accappatoi col nome ricamato.
«A me dà più fastidio tutto quello che mi hanno fatto in quasi trent’anni di embargo sportivo da parte degli Stati Uniti – confessa, in poltrona, grosso come allora e con la tuta della nazionale cubana (dove insegna pugilato, ndr) – delle cinque olimpiadi che avrei sicuramente vinto, ne ho vinte solo tre!». Le altre sono state boicottate da Cuba (84 Los Angeles e 88 Seul) contro le gabole statunitensi e Savon ha ben chiara la sua scelta «Quando boxavo, boxavo contro il mondo, e il mondo contro di me. Oggi Cuba è contro il mondo e il mondo è contro Cuba. E allora a me spetta un compito. Quello di difendere il mio paese».
Proprio la particolarità della boxe a Cuba è il nocciolo del problema: la chiamano «boxe sociale» perché tiene bene in conto la sicurezza e l’attenzione all’atleta. Si spiega così la scelta del dilettantismo, di una boxe che non punta alla distruzione dell’avversario o alla mancanza di rispetto. Il professionismo è molto più pericoloso e i pugili subiscono molti più danni, ma è anche vero che un professionista combatte molto poco mentre un dilettante lo fa in continuazione.

Ha l’obiettivo, inoltre, di creare una forma sana di sport eliminando qualsiasi tipo di mercato economico attorno agli atleti, insomma uno sport anticapitalista. I pugili vengono seguiti da tecnici super preparati fin da giovanissimi, sia atleticamente che psicologicamente che scolasticamente; ogni maestro conosce e studia sia le caratteristiche fisiche che quelle relazionali, come il carattere, la situazione familiare e economica, di ogni suo atleta. In più, il maestro è tenuto a preoccuparsi del suo rendimento scolastico: così, parlottano a lungo Angel Moya e Hector Vinent, due glorie della boxe isolana, che seguono Robin e Yoel, due teenager dalle doti pazzesche anche se hanno solo tredici anni, e poi si finisce a discutere con El Chino, chiamato in tal modo per i tratti orientali, seduto dietro una scrivania con Guillermo, entrambi quasi cinquantenni e una cuffia di lana per tenere a posto i dreadlocks, ricordando le parole e le imprese dell’amatissimo Teofilo Stevenson, lo sportivo che ha rifiutato una montagna di dollari americani per amore del suo popolo, o invece, una sorta di arcangelo Michele, l’angelo ribelle Guillermo Rigondeaux, gioiello pugilistico forgiato dal professore Andres Linares, un idolo che aveva già vinto due Olimpiadi e due mondiali e che scelse di disertare nel 2009.

Teófilo-Stevenson-e-Fidel-Castro

Così, la Rivoluzione cubana ha voluto che l’attività sportiva fosse un percorso di miglioramento di tutti gli individui; l’escuela de boxeo cubana concentra tutto l’insegnamento sulla tecnica e sulla tattica, sui colpi dritti e lunghi, non sulla potenza e sullo scopo di fare male all’avversario. Anche se le contraddizioni sono visibili facilmente: il pugilato femminile è proibito, parecchi ragazzi cedono alle sirene della compra, il miraggio dei soldi facili statunitensi (utilizzati solo per screditare l’isola caraibica e i suoi abitanti), si è affacciato un semiprofessionismo con sponsor tecnici invadenti e premi in denaro per gli incontri.

Per ora, la bellezza e la grazia della escuela de boxeo cubana resiste; intanto Angel si mette il fischietto in bocca e richiama i suoi piccoli allievi ad altri giri di campo.