«Bring me back to reality», urla John Turturro nei panni di un cialtronesco e tragico attore incapace di dire anche il poco che dovrebbe dire nel film che Margherita Buy (alter ego di Moretti) dirige all’interno di Mia Madre. Il film di Moretti sembra giocarsi su questa problematica polarità, quella che si apre fra la realtà e la sua rappresentazione. Lo spazio che il film prova ad attraversare è cioè quello che divide un cinema inteso come racconto della vita, che diventa giocoforza una sua riduzione retorica e patetica, e la realtà della vita, delle cose vissute, pensate e sentite. Il cuore della realtà, sembra dire Moretti, è sempre irraggiungibile per la rappresentazione e può essere – con tenerezza e delicatezza, due parole che caratterizzano l’ultimo Moretti – appena sfiorato. Anzi, è talmente irraggiungibile, la realtà, che l’unico modo per avvicinarla, per farcela avvertire, sembra essere, di fatto, la messa in scena della morte. Il tentativo di Moretti, qui come con La stanza del figlio, è quello di avvicinarsi a questa realtà che sola pare poter fare piazza pulita delle retoriche, degli automatismi insulsi, dei vezzi linguistici che il cinema morettiano ha sempre indagato, amplificato e con ciò decostruito. La cosa che più colpisce, qui, è che tra la morte – e dunque tra il dolore della perdita e della dissoluzione dei legami originari – e la sua maschera – e dunque la finzione, la commedia, la pantomima – sembra non esserci, di fatto, realtà alcuna. Essere riportati alla realtà, come chiede sbraitando nel suo strampalato italiano John Turturro, significa, dunque, a guardare la cosa in termini essenziali, essere messi di fronte alla morte. Lo stesso personaggio di Turturro – che fa l’attore americano, gradasso e incapace – ritrova se stesso e torna in qualche modo ad essere capace di recitare solo dopo aver confessato il male che lo attraversa, la consumazione di sé che sta vivendo.

Insomma, fare i conti con la realtà, sembra voler dire Moretti, significa vivere questa esperienza radicale ed estrema, che è l’anticipazione della morte, la quale può essere rappresentata o come malattia (Caro diario) o come il non senso della perdita di un ragazzo (La stanza del figlio) o come la naturalità comunque lacerante della morte di un genitore (Mia madre).

I due film contenuti in Mia madre – e cioè il film che sta girando la regista Buy/Moretti e il film della malattia e della morte della madre dei due fratelli impersonati appunto da Buy e Moretti – sembrano proprio evocare, a tratti un po’ troppo scolasticamente, queste due dimensioni: da una parte il film che pretende di essere realistico, con un forte connotato sociale e politico e che si rivela come afono e dunque incapace di sfiorare il mondo che vorrebbe rappresentare, con un protagonista, Turturro, appunto, che non riesce a ricordare le battute, con i continui interventi dei truccatori a ritoccare le facce, con le luci di scena che stravolgono la verità e con la disperazione della regista perché è tutto finto, perché non c’è realtà, perché non è vero quello che si vede; dall’altro, il film che si svolge al di là del cinema, fuori dalla scena, dentro una stanza di ospedale, o dentro la casa della madre che Margherita va ad abitare, o ancora nell’ambulatorio del medico che cerca di dire a un consapevole Moretti e a una Buy che sembra invece non volerlo accettare, la fine imminente della madre. E tuttavia, anche questo film è in qualche modo altrettanto ‘falso’ del precedente.

La scena bellissima nella quale Moretti parla alla madre nel buio della stanza dell’ospedale è una scena chiaramente costruita e persino quasi pittoricamente enfatizzata. Come retorica è la scelta della musica di Arvo Pärt (in continuità con il Miserere che chiudeva Habemus Papam) o il minimalismo sentimentale di Philip Glass e Olafur Arnalds ad accompagnare la storia, o il sogno di Margherita che come un angelo di Wenders ascolta le parole degli umani in coda per andare a vedere dentro un redivivo Capranichetta in piazza Montecitorio a Roma Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, appunto.

Mia madre è questa contraddizione: il tentativo di toccare il vero, la realtà sentita, il dolore più intimo, e, insieme, la consapevolezza che qualunque tentativo di questo tipo è comunque destinato a risolversi in rappresentazione. Il paradosso di cui qualunque messa in scena deve farsi carico, sembra dire Moretti, è il paradosso dentro il quale si muove per sua natura il cinema: la più realistica tra le forme d’arte è infatti quella che più di qualsiasi altra vive la contraddizione tra il suo essere a un tempo realtà (corpi, vite, spazio, tempo) e rappresentazione (maschera, recita, artificio): verità e menzogna, vita e sua caricatura.
La bellezza del film, come spesso accade, si identifica dunque anche con il suo limite più profondo, e cioè con questa sorta di incapacità tipicamente morettina di accettare la contraddizione, di viverla per ciò che essa è; nel pretendere, cioè, enfatizzandola e rappresentandola di trovare la via per scioglierla, per districarla, questa contraddizione. Ma il suo scioglimento, la risoluzione della contraddizione è anche il dissolvimento dell’arte, lo sgretolamento della possibilità di abitare questo spazio pieno tra realtà e finzione che consente di vedere, con occhi per fortuna mai del tutto limpidi e trasparenti, tanto l’una quanto l’altra.