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L’arroganza renziana è stata punita e anche quella del suo Pd. E adesso si riaprono i giochi sia all’interno della Sinistra che nel Paese. Perché dopo il voto di domenica non è affatto scontato che la legislatura duri fino al 2018. E l’immagine di Renzi in tuta mimetica mentre visita i militari in Afghanistan è perfettamente in linea con quel che l’aspetta in Italia.

Eppure tra tutte le istantanee della lunga notte elettorale, quella del berlusconiano Toti che brinda e fuma per la vittoria in Liguria, interpreta al meglio lo schiaffo preso dal premier e le novità politiche prodotte dal voto. Fuori ogni previsione, una vittima sacrificale buttata nella mischia per la sopravvivenza di Forza Italia vince, e diventa presidente di Regione in una delle roccaforti della sinistra tradizionale, grazie ai voti decisivi della Lega. La Liguria è una sintesi: da una parte la vittoria del centrodestra unito e a trazione salviniana, dall’altra la sconfitta del Pd a ex vocazione maggioritaria, perché non ha più la forza trainante del consenso, e perché a sinistra si apre un’altra, inaspettata, possibilità.

È vero che il Pd vince in 5 Regioni su 7, strappando la Campania alla Destra. Ma il puzzle politico italiano è racchiuso nel risultato ligure ed è ridicolo addossare il tracollo del partito dal 42 per cento delle europee al 27 per cento attuale (e impresso nella triste parabola di una candidata tanto sponsorizzata quando invisa all’elettorato), al «traditore» Luca Pastorino, spinto da due neo-ex come Cofferati e Civati, i famosi «masochisti 2.0». Intanto perché chi ha votato Pastorino non avrebbe votato per la renziana Paita. Ma c’e l’esempio del Veneto. Nonostante la spaccatura e il 14 per cento di Tosi, il leghista Zaia ha addirittura trionfato.

Volendo girare il coltello nella ferita, andrebbe sottolineato che le uniche due ultras renziane (Paita e Moretti), hanno preso una vera batosta, personale e come rappresentanti del Pd. E questo è un flop sul quale il segretario/premier farebbe bene a riflettere. Gli altri candidati vincenti del Pd (come Emiliano, De Luca, Rossi) anche se hanno corteggiato e blandito Renzi negli ultimi mesi, giocano una partita autonoma, forti di un consenso locale. Resta il fatto che su De Luca c’è la mannaia della legge Severino: qualsiasi strada verrà imboccata per tenergli la poltrona di presidente, sarà comunque molto scivolosa.

Ma il paradigma ligure ci regala anche l’altra importante novità: la forte, diffusa affermazione dei 5Stelle in tutti i luoghi dove si è votato. Siamo di fronte ad un inedito fatto politico perché le liste dei pentastellati avevano sempre avuto nel voto amministrativo il loro tallone di Achille. Invece ottenendo percentuali a due cifre, diventando primi in tre regioni e il secondo «partito» su scala nazionale, dimostrano una capacità di presenza e di consenso anche sul territorio, dove hanno combattuto con pochi soldi e giovani sconosciuti. Sempre più i 5Stelle si confermano come una forza decisiva per sbloccare la situazione politica. Lo ha capito il neoeletto governatore della Puglia, Michele Emiliano, che ha già proposto per l’organigramma della futura giunta, l’ingresso della capolista grillina.

La Liguria ci dice qualcosa di nuovo anche nelle potenzialità di una «rete» di sinistra perché il 10 per cento di Pastorino tiene aperto uno spazio politico, il più significativo tra quelli registrati dalle liste a sinistra del Pd. Un voto che riflette e raccoglie il dissenso largo di un elettorato lontano dalle politiche del governo (scuola, pensioni, riforme). Insieme al calo generalizzato e pesante dei voti del Pd, l’apertura di credito verso Pastorino mette un bastone tra le ruote alla vocazione maggioritaria di Renzi. Però è necessaria una riflessione anche a sinistra perché i consensi ottenuti dalle altre liste non sono neanche una base e Podemos è lontana anni luce.

Uscendo dai confini liguri emerge tuttavia una enorme distanza tra eletti e elettori, tra i governi locali e quei 23 milioni di elettori chiamati alle urne. Questa volta lo scalone dell’astensione è più di dieci punti di media in meno rispetto alle regionali del 2010. Ma, ancor di più, se il crollo della partecipazione lo andiamo a leggere in regioni come la Toscana o le Marche, ci accorgiamo che nel cuore del Paese, nelle terre dove si superava il 60 per cento di votanti, adesso siamo addirittura sotto il 50 per cento.

E la Toscana di Rossi si è fermata al 48, con un particolare non secondario: la Lega oltre il 16 per cento, avanguardia di uno sfondamento della destra oltranzista in tutto il centro Italia. Il successo di Salvini, mette in chiaro un problema evidente da almeno un anno: la leadership del centrodestra. Cosa peraltro urgente. Anche perché non è escluso che Renzi voglia anticipare il ritorno alle urne. Chi sarà lo sfidante? Grillo che gioca una partita a sé o Salvini che vuole ampliare il suo consenso, rottamando Berlusconi?

Comunque un italiano su due ha disertato il proprio seggio. Certo l’estate e il lungo ponte non hanno invogliato i cittadini, ma stiamo parlando di un vero e proprio crollo, di una fuga di massa, di un problema di democrazia. Che i due vicesegretari del Pd, si esprimano con slogan rinsecchiti dal rancore verso il capro espiatorio di turno (Pastorino, Bindi…), per poi concludere che va tutto bene perché il Pd ha vinto 5 a 2, non stupisce: semmai conferma chi è che gufa davvero contro il Paese.