Giugno 1960: un cocktail party da Faber & Faber in onore di W.H. Auden. Ed eccolo lì Ted, nel salone della celebre casa editrice in Russell Square, nel cuore di Bloomsbury, «al suo fianco T.S. Eliot, W.H. Auden, Louis MacNeice da un lato e dall’altro Stephen Spender» in posa per una foto ufficiale. È il Gotha. Sylvia Plath non può che essere «immensamente fiera», sono sue parole, Ted «sembrava a casa sua in mezzo ai grandi».

Lei, la moglie, guarda da lontano il successo tanto atteso da anni per se stessa e per lui, Ted Hughes, da anni soprattutto per se stessa. La madre, Aurelia, la confidente e agente letteraria, segue tutto dall’altra parte dell’oceano, naturalmente tutto quello che Sylvia vuole che sappia, o tutto quello che lei, Aurelia, decise poi che noi sapessimo. Settecento lettere «alla madre» nell’arco di tredici anni, dall’entrata di Sylvia allo Smith College nel 1950 al febbraio del 1963. Solo due terzi di questo corpus, selezionato evidentemente con cura, Aurelia Schober Plath rese pubblici nel 1975, in un momento in cui il «mito» della figlia trionfava nella coazione del lutto.

La traduzione di una selezione per Guanda fu quasi tempestiva nel 1979 (nel 1976 una breve scelta di poesie era uscita preso Mondadori a cura di Giovanni Giudici).

Oggi siamo invitati a rileggere questo epistolario con occhio forse diverso, più maturo e più consapevole di altri materiali (i diari, le Lettere di compleanno di Hughes), grazie alla ristampa che ci viene riproposta con un nuovo titolo: Quanto lontani siamo giunti Lettere alla madre (a cura di Marta Fabiani, Guanda «Biblioteca della Fenice», pp. 317, euro 22,00).

Il volume si accompagna a La grande estate Sylvia Plath a New York, 1953 di Elizabeth Winder (traduzione di Elisa Banfi, Guanda «Biblioteca della Fenice», pp. 263, euro 24,00), una cronaca, con testimonianze delle ultime sopravvissute, dei venti giorni di stage giornalistico che Sylvia, allora allieva del prestigioso Smith College, svolse, con altre diciotto ragazze e su severa selezione nazionale, presso la raffinata rivista «Mademoiselle», che patronizzava l’etichetta di eleganza mista a cultura per la giovane donna americana di allora proiettata, più che altro, verso un’etica di consumismo e conformismo: siamo nei fiduciosi, ‘silenziosi’ e subdoli anni cinquanta. Winder si propone di «smontare il cliché della Plath artista maledetta» e mostrare come ella fosse invece prodotto autentico «dell’America della metà del secolo».

L’accostamento dei due volumi (grazie alle parzialità del primo) funziona. Nell’orgoglio provato per l’estate a New York, fra sfilate di moda, lavoro di redazione e mondanità, c’è una parvenza della vita da vincente che Sylvia ambiva a costruire per sé, puntando sulla molla della competizione, del primato, il successo, il denaro, e la conquista di quella self-reliance che R.W. Emerson aveva coniato nel 1841 per il giovane americano sia nell’attuazione di una pratica di vita sia – per il genio creativo – della espressione poetica: una spinta verso un’incondizionata fiducia in se stessi che col tempo avrebbe finito col condurre molti poeti (Melville, Hart Crane, Delmore Schwartz, Anne Sexton…) al deragliamento, allo pseudo-fallimento, al suicidio.

Anche se, come nessun altro, posseduta dal demone della poesia, Sylvia, artista in nuce e «consumatrice», nel 1953 appare immersa in quello slancio che lei non scinde dalla cultura del benessere del suo paese, e nelle «bamboline di carta» fabbricate da «Mademoiselle», alla cui redazione viene eletta per fare praticantato, ella s’identifica: cosmetici, biancheria intima, lusso e cibo sofisticato le procuravano un autentico piacere; un abito nuovo (magari rosso) le dava «una vertigine di felicità»; una lista di acquisti era per lei «una lista di poesia»; la contiguità con stelle del cinema (Grace Kelly al Barbizon Hotel, dove anche Sylvia soggiornava) o la loro maschera abbagliante (Marilyn Monroe) l’affascinava; l’incontro con celebri letterate (Elizabeth Bowen) la esaltava.

L’estate a New York, testimoniata da fotografie di Hermann Landshoff, che la immortalano nel ruolo di collegiale pin-up (somigliava alla modella Sunny Harnett), finirà con un esaurimento nervoso e, tornata a casa, nella modesta Wellesley, vicino Boston, Sylvia si abbandonerà al suo primo, devastante tentativo di suicidio.

Il passaggio a Cambridge nel 1955, grazie a una borsa di studio Fulbright, lontano da quell’America competitiva e pragmatica, sposterà verso sentieri più concreti e sacrificali le sue ambizioni. Sylvia frena la corsa alla pubblicazioni di racconti in riviste commerciali («per il mercato»), e se lo fa, lo fa, e lo farà, solo per l’eterno bisogno di denaro.

Ma ora è più disposta ad attendere occasioni migliori e soprattutto, nonostante un romanzo continuamente in fieri, a distillare quello che ha da dire in versi: «Oh mamma, se solo sapessi che anima mi sto forgiando! Che fortuna sono stati per me questi due anni! Io lotto, lotto per costruire il mio io, spesso con gran dolore, come ogni nascita richiede, perché è giusto che debba essere così, e mi purifico al fuoco dell’amore e del dolore» (1956).

Ha scritto una poesia stupenda che acclude alla lettera, Inseguimento: «Una pantera m’insegue, un giorno ne morirò». Sogna, e confessa alla madre (nel 1953), l’uomo che desidera, «fisicamente voglio un colosso… intellettualmente voglio un uomo che non sia geloso della mia creatività in nessun campo che non siano i figli». Tre anni dopo, questo «colosso» (come suo padre) lo identifica in Ted Hughes: «Ho conosciuto l’uomo più forte del mondo, un brillante poeta già studente di Cambridge di cui apprezzavo il lavoro prima di conoscerlo, uno squadrato, massiccio, robusto Adamo, metà francese, metà irlandese, dalla voce tonante come un dio – un cantante, un gigante». Hughes è di ceppo contadino del duro Yorkshire, uno che va a caccia di conigli e pesca trote vellutate (un’abilità crudele che lei poi gli rinfaccerà in Il cacciatore di conigli), lui diventa la sua «pantera», il suo «fauno»: «Accucciato come un fauno, ululò / da un boschetto di barbagli di luna e brina di stagno (…) / Un’arena di occhi gialli osservò la sua trasmutazione, / e vide zoccoli farsi dai piedi, e spuntare / corna di capra; udì levarsi un dio / e galoppare verso il bosco in quella guisa».

E così, più o meno, disperatamente innamorata e fra difficoltà economiche e creative, traslochi, faccende domestiche, allattamento figli, gelo infernale nella campagna inglese, l’uscita agognata dell’unico libro pubblicato in vita – ironicamente The Colossus (1960) – si arriva a quel festoso evento immortalato a Russell Square: l’ammissione nell’Olimpo dei poeti inglesi (per lui). Il resto è storia, pettegolezzo e tragedia. I Diari (Adelphi) parlano più apertamente di ciò che già strisciava sopra e sotto le superfici.

Nelle lettere rimane tabù il rapporto ambiguo con la madre Aurelia, il cui nome è lo stesso di quello di una specie di meduse (l’«aurelia aurita»). E proprio la lirica Medusa (1962) è a lei indirizzata: «con i tuoi accoliti / che agitano le loro cellule impazzite all’ombra della mia chiglia / e arrancano come cuori, / rosse stigmate nel centro esatto, / fluttuando nella corrente fino al più vicino punto di partenza, // trascinando le loro chiome nazarene. / Ce l’avrò fatta a fuggire? / la mia mente si rivolge a te / vecchio ombelico incrostato, cavo transatlantico, / che si mantiene, pare, in miracoloso stato di conservazione. (…) / Via, via, tentacolo anguillesco! // Non c’è niente fra noi».

Niente fra noi: neanche le lettere.