La riflessione filosofica condotta, secondo il modello platonico, in forma di dialogo, muove il ragionamento intrecciando voci diverse, accosta l’argomento da angolazioni distinte. Formula così chiarimenti e precisazioni, mette capo ad acquisizioni via via condivise e, da ultimo, circoscrive entro un coerente assetto le molteplici notazioni parziali recate, dal dialogo, a sintesi. Ma, con tutta evidenza, il genere dialogico ci restituisce anche una azione che si svolge, possiamo dire, sotto i nostri occhi, alla quale assistiamo, quasi diretti spettatori – dunque veritieri testimoni – e che ci coinvolge come ascoltatori, attenti al tenore delle varie voci. Nella forma del dialogo prende così avvio un andamento teatrale, drammatico. Il testo ci fa conoscere l’identità degli interlocutori e ci inserisce nel ritmo dato dal succedersi delle domande e delle risposte, delle obiezioni e delle argomentazioni, articolate nelle parole dei protagonisti.

È così che il dialogo filosofico che si attiene al modello classico è ‘ambientato’: ha la sua scena; ci vien detto il luogo nel quale si svolge e la durata dell’interlocuzione. Ed è possibile sostenere che le opinioni, i giudizi, le tesi e le convinzioni espresse traggano, da quel preciso contesto di tempo e di luogo, la loro legittimazione teorica e che le resultanze si affermino con il timbro non equivoco di una delle conosciute voci. Una scrittura che ambisce aderire al parlato, nel presupposto che nella frase, per come e quando è detta e pronunciata, la parola acquisti il suo senso, mostri la sua valenza teoretica e si faccia allora concetto, ritrovi il suo rango di idea. A queste sommarie considerazioni mi sono lasciato andare nel leggere le pagine de «L’Utopia», licenziate a Lovanio nel 1516, cinquecento anni orsono (a Tommaso Moro, il 6 luglio prossimo, nel giorno in cui, nel 1535, la vita gli fu tolta, la Biblioteca Angelica di Roma renderà omaggio), osservazioni non nuove che, tuttavia, mi invitano a riflettere sul narratore protagonista, a concentrarmi sulla sua identità quale da Moro ci viene presentata e, solo dopo, sulle storie che racconta.

Una sollecitazione a delineare il volto insieme alla voce di Raffaele Itlodeo: «mi avete recato il più straordinario piacere, signor Raffaele mio, ve lo assicuro; tanta è la saggezza e la festevolezza insieme di tutte le vostre parole» dice Moro. E quel nome Itlodeo, di erudito conio umanistico, non allude forse al «parlare» al «proferir parole», al «dar voce»? E il perfetto racconto della città che non c’è, scrive Moro, è «sermo», ossia «parlamento», nella traduzione italiana di Ortensio Lando del 1548. Con il «parlamento», insieme, l’aspetto: «un forestiero, già vólto a invecchiare, dalla faccia adusta, dalla barba lunga, che con una certa trascuratezza si lasciava pendere da una spalla il cappotto e al volto e al portamento si dimostrava un padrone di mare». «Vedi costui?» dice a Moro il giovane amico Pietro Gilles, «non c’è al mondo oggi nessun uomo che ti possa fare relazioni così ampie su uomini e terre conosciute». E Moro: «Non mi sono sbagliato, è un padrone di nave». «Ti sei sbagliato, e non poco – replica Gilles – è andato per mare, certo, ma non come Palinuro, sibbene come Ulisse, anzi come Platone».

Andare per mare. Itlodeo veleggia, la rotta sta nella bussola delle sue parole come la nave sta nell’alto mare, senza vista di terra ferma a poppa o il segno d’un’isola sul lontanissimo dell’orizzonte. Utopia è formulazione dello sguardo di Itlodeo che trascorre tutt’attorno il mare. Senza un confine che non sia di cielo. O della voce, in forma di parola.