Nel periodo fra le due guerre, Il cimitero marino era probabilmente la poesia contemporanea più celebre in Europa; il suo autore, Paul Valéry, senz’ombra di dubbio l’intellettuale più omaggiato del continente. Perfino una sua raccolta di articoli sul presente, gli Sguardi sul mondo attuale, composta di pezzi d’occasione per lo più pensosamente superficiali (e alquanto reazionari: non manca un elogio dell’Idea di dittatura, ispirato da un libro d’interviste di Salazar, e datato sinistramente 1934), ha potuto essere per anni, in Francia, poco meno che un best seller.

Vate incensato, maître à penser, emblema del ritorno all’ordine dopo il carnevale delle avanguardie, l’uomo che per più di vent’anni si era quasi completamente negato alla parola pubblica, concentrandosi sul quotidiano esercizio di autoanalisi affidato alla scrittura privata dei Quaderni, sale improvvisamente con La giovane Parca, nel 1917, al rango di poeta ufficiale; e si costringe fino alla morte, avvenuta nel 1945, a alimentare, con rare pubblicazioni poetiche – per l’essenziale, la raccolta Charmes (Incanti), del 1922 – e innumerevoli interventi di circostanza, spesso su commissione, la figura mummificata del classico vivente.

Oggi, i versi di Paul Valéry sono certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione, ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno, delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola, l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.

Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva, che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più dotato di lui – Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo. Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone (per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.

La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court, nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei testi: così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni, una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento forse funebre», fatto delle «parole più pure» e della «forme più nobili» della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.

Per questo conviene salutare con gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, pp. CIII + 1782, euro 80,00), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi: traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli anni trenta e, al contrario di quello, in parte ancora incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza, punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni: al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e, ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica sviluppata oltre Reno.

Di Valéry, dunque, reggono oggi soprattutto i Quaderni: esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito, Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo autentico «Robinson intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i concetti di cui si serve, e fingendo di ignorare il contemporaneo dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più pregnanti di quelli al dibattito filosofico o letterario. E, di quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale, l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre lezioni (due inedite anche in francese).
Quella dei Quaderni è una nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai (e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto).

Il formalismo e lo strutturalismo degli anni sessanta e settanta, prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione.

La volontà di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché «fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali che presiedono alla creazione artistica (intesa («come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo), lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud.

Perché davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia, così la psicoanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni, della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento facendo economia di ogni ipotesi di inconscio.
Una postura intellettuale, questa, che non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti, che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nei temi e nelle forme delle raccolte in versi degli anni ottanta.

I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry – Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista a stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’«Inesausta volontà di autocostruzione», che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri, quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate: ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca non manca di render visita e omaggi.

Per l’allievo più dotato dello schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il celebre «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre», che nella traduzione di Giaveri suona (svantaggiosamente infedele): «S’alza il vento!… Affrontiamo la vita» – pare l’ennesima ironia della sorte.