Accuratamente evitata quando si parla di una nuova Golden Age del piccolo schermo americano, o della moda del documentario, la reality tv è la progenie nascosta, impresentabile, della nostra ossessione per l’implausibile idea di una trasposizione diretta, unfiltered, del mondo che ci circonda. Malinconico calderone di narcisismi iperbolici, umiliazioni profonde, instant celebrity, ex celebrity, kitsch esorbitanti e miseria umana, il reality –che di unfiltered non ha nulla- rimpinza a costi relativamente bassi i palinsesti dei duecento e passa canali offerti da un abbonamento tipo della Time Warner Cable o di Cablevision.

Casalinghe di Atlanta, Chicago e Beverly Hills, pescatori di granchi del mare di Bering, camionisti sui ghiacci dell’Alaska, le infinite variazioni del modello Survivor e del modello Jersey Shore, bachelor e bachelorette, gente che ha la casa così brutta che gliela ricostruiscono e gente che ce l’ha così piena di spazzatura che ci vuole l’ufficio d’igiene, più la piaga dei Kardashians e, a partire da domenica sera, I Am Cait, con l’ex campione olimpico Bruce Jenner (Caitlyn, dopo l’intervento), seguita subito dopo da una nuova serie sulle vicissitudini famigliari di Rod Stewart e George Hamilton. Satirizzato in sitcom come l’inglese The Office, o in soap opera come The LA Complex, da qualche settimana, il reality è anche il soggetto di una serie fiction.

UnREAL, in onda al lunedì sul canale Lifetime, sta al genere come The Newsroom sta a CNN e ad analoghe reti all news.
Al posto dello sceneggiatore hollywoodiano Aaron Sorkin sono Marti Noxon, co-produttrice di Buffy The Vampire Slayer, che ha firmato anche episodi di Angel, Grey’s Anatomy, Mad Men e Glee e Sarah Gertrude Shapiro, laureata in cinema, ex collaboratrice della produttrice indipendente Christine Vachon e del fotografo David LaChapelle ma soprattutto produttrice di nove stagioni del reality The Bachelor.
Come The Bachelor, Everlasting, il programma sul cui making of è costruito UnREAL, è un reality in cui una dozzina di belle ragazze si contendono un (almeno in apparenza) desiderabile scapolo: Adam Cromwell, biondo rampollo playboy di una dinastia di hotelier britannici, in cerca di approvazione paterna e della fama che potrebbe permettergli di mettersi in proprio lontano dalle nebbie inglesi, con un’azienda vinicola/resort a Napa Valley. Le concorrenti della spietata caccia all’uomo sono impietosamente descritte sui cartelloni che adornano la regia del programma e sui cui viene mappato lo svolgimento della serie: la stronza, la vergine, la patetica tardona, la puttana, la quota etnica…dicono dei fogliettini postati sotto le fotografie delle rispettive ragazze, mosse come pedine di una scacchiera dalla showrunner Quinn (Constance Zimmer, era l’asso del reportage investigativo in House of Cards) e dalla sua vice, Rachel (Shiri Appleby).

Sono loro, infatti, e non i partecipanti di Everlasting, con le loro ambizioni sbagliate e spasmodico desiderio di soldi e stardom, i veri protagonisti di UnREAL. Due donne che traggono dalle loro rispettive, contorte, psicosi e dalle loro debolezze la capacità di manipolare le psicosi e le debolezze altrui. Una veterana dal genere reality, forse veramente innamorata del co-creatore della serie che però, oltre ad essere sposato, la tradisce con stagiste, prostitute e cocaina, Quinn è un burattinaio mefistofelico. «We are doing true love here, TRUE LOVE!», è il suo motto. Aborre i tempi morti, le concorrenti noiose o troppo oneste, i dialoghi «sinceri».

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Promuove liti tra le ragazze, scenate di gelosia, sesso, l’occasionale sfogo di pianto e non si ferma davanti a un suicidio (una manna per i rating). Tutti orchestrati accuratamente dai suoi collaboratori che ricevono bonus in dollari quando il loro intervento backstage sfocia nell’effetto desiderato on camera. Piccola, i capelli raccolti malamente sulla testa, sempre infagottata in un giaccone nero, Rachel viene da una famiglia ricca con cui però ha rotto e quindi dorme su uno dei furgoni del set, quando non è tra le braccia di Adam (che si rivela a sua volta manipolatorio…) o quelle di un cameraman ex fidanzato, che però sta per sposarsi con una dei costumi.

Allieva modello di Quinn , Rachel nasconde dietro all’aria innocua, quasi dimessa, la stessa arte/patologia per l’exploitation delle emozioni umane della sua maestra. Quando una concorrente esclusa se ne va senza dare sfogo all’obbligatoria crisi di nervi, Rachel la recupera, con la scusa di fare due chiacchiere da sole e, dopo averle somministrato un paio di cocktail, la riconsegna all’obbiettivo pronta per il close up rabbioso di cui c’era bisogno per chiudere trionfalmente la puntata.

Quando un tabloid da supermercato («il nostro New York Times» lo definisce lei) svela che, dal set di Everlasting, Adam sta sextando con la sua fidanzata in Inghilterra, Rachel fa sì che le ragazze dello show lo scoprano, coreografando una scena di pubbliche scuse da parte di lui che manda in delirio concorrenti e audience.

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Non si salva nessuno nell’affascinante, super addictive, tritacarne di UnREAL, che per il barocchismo delle sue trame e la chiara matrice da insider (Shapiro ha liberamente attinto dalla sua esperienza su The Bachelor) ricorda la combinazione di disgusto ed empatia che attraversa i migliori romanzi su Hollywood di Bruce Wagner – perché solo guardando dal di dentro si può disprezzare con tanto affetto.
L’intelligenza, e l’interesse di UnREAL stanno infatti nel suo non trattare con accondiscendenza chi sta davanti e dietro alle telecamere di Everlasting, ma nemmeno il pubblico. (Ri)mettere in scena uno show tutto basato sui peggiori, più superficiali, stereotipi sessisti, con la capacità di riderne ma anche di riconoscere una dignità ai personaggi. È la differenza tra il teatro della crudeltà e il freak show. Il che ne fa una serie decisamente non unfiltered, ma sicuramente molto real.