«Non a tutti è dato cantare,/Non a tutti è dato cadere come una mela/Ai piedi altrui./È questa la più grande confessione/Che possa farvi un teppista.» Viene in mente Esenin in relazione al programma di Federico Rossin incluso nella 52° mostra del cinema di Pesaro: «Lezioni di Storia – Videoteppismi: storie e forme del video di lotta» (4-6 luglio). Ora, il rimando di cui sopra vale come indicazione di «poetica». In fondo, che cos’è questa idea di teppismo se non una esigenza di colpire (cantare) e svelarsi (cadere)? A suo modo, anche molta dell’esperienza video di certo cinema militante prova quanto detto: una idea di creazione al di là dell’estetica la cui efficacia si svela in una sorta di «politica senza autori» e, anche, in una incidenza del «dispositivo».

Tre le opere in cartellone: Lottando la vita. Lavoratori italiani a Berlino (Videobase, 1975); Maso et Miso vont en bateau (Les Muses s’amusent, 1976); Züri Brännt (Videoladen Zürich, 1980). La prima è una video-inchiesta realizzata a Berlino Ovest tra i lavoratori immigrati italiani, poi integrata con altre testimonianze aggiunte in relazione a dove il film venne presentato; la seconda è «una riflessione esilarante sulla stupidità della televisione, sul potere mediatico, sulla posizione della donna nello spazio pubblico», a partire da una rielaborazione critica di una emissione tv dedicata all’anno della donna proclamato dall’ONU nel 1975; la terza è «un video-saggio» che «riesce a raccontare i disordini avvenuti a Zurigo nell’estate 1980».

Questo in sintesi, ma per saperne di più ho posto qualche domanda allo stesso Rossin.

Cosa offrono questi tre film oggi?

Si tratta di tre opere fuori formato che eccedono il genere «documentario militante». Che sia l’opera in divenire/mutazione di Videobase, la pirateria post-situazionista delle Muses s’amusent, il saggismo punk di Videoladen, il video-teppismo si dimostra ontologicamente inafferrabile, resistente a definizioni critiche e immune da dettami di partito. Inoltre, la classica politica autoriale è spezzata dalla dinamica della produzione collettiva, che smonta da un lato l’identificazione ideologica cara al ’68 («D’où parles-tu, camarade?»), dall’altro produce testi disseminati, non riconducibili a ordini del discorso. Insomma, volendo citare Derrida, opere che sono strutturate su di una serie di ibridazioni e innesti che contestano alla radice il concetto di identità. Dietro questa inafferrabilità c’è sì la pulsione di morte degli anni 70, ma anche il gusto liberatorio di abbandonarsi al principio di piacere e al puro, infinito godimento (Grifi e i suoi video-teppisti de Il Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro sono la matrice di questa programmazione). È quindi l’apparente inattualità – politica, estetica – a rendere queste opere tanto più necessarie oggi…

Sarebbe bello un tuo commento sul video militante italiano.

Il video-teppismo italiano nasce dalle ceneri dello slancio zavattiniano dei Cinegiornali liberi, viene teorizzato rapidamente (1973) nel fondamentale Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione curato da Faenza, e si sviluppa di pari passo con la rapida evoluzione tecnologica del medium, ibridando forme diverse. Oltre quanto già entrato nel canone (Anna di Grifi e Sarchielli, Il manicomio – Lia di Grifi, Processo per stupro del Collettivo femminista di cinema) vanno ricordati La parte bassa di Caligari e Barbero e i video di Armando Ceste e del Collettivo Cinema Militante di Torino (CCM). E naturalmente tutte le altre opere di Videobase (Anna Lajolo, Guido Lombardi, Alfredo Lombardi) di cui finalmente possiamo oggi disporre. Tengo quindi a ringraziare l’equipe della Camera Ottica di Gorizia e, fra gli altri, Annamaria Licciardello e Fulvio Baglivi (Cineteca Nazionale), grazie ai quali in questi anni il video di lotta italiano è diventato materia di restauro, studio, diffusione. Voglio infine segnalare il libro di Christian Uva, L’immagine politica, una miniera di informazioni, documenti e analisi.

Dicci di più su Züri Brännt, un film decisamente sorprendente.

L’idea di piegare materia e tecnica come quelle del video alla complessità del film-saggio (e di un lungometraggio!) era davvero innovativa. L’aspetto più sorprendente è dato dalla mescolanza di registri, tonalità ed elementi: una ricercata bellezza figurativa va di pari passo con un’irresistibile impudenza anarchica, una fine riflessione filosofica sul destino della società post-industriale si lascia innervare da una distruttiva collera punk, una densa e meditabonda voce off si ibrida con la cultura popolare sfruttandone la potenza d’immaginario (la TV e Godzilla!). Prodotto dai protagonisti stessi della rivolta giovanile che incendiò Zurigo e tutta la Svizzera nel 1980, Züri Brännt è allo stesso tempo un pamphlet formalmente erede del cinema di propaganda novecentesco (Vertov) e la testimonianza a caldo di una generazione formata dai nuovi media e politicamente video-attivista: immagini di scontri di strada, manifestazioni e esperienze di autogestione si incrociano con una riflessione profetica e d’impressionante attualità sulla società tardo-capitalista. La domanda che mi pongo è se davvero possiamo comparare il video-teppismo di ieri con l’utilizzo critico dei video sui social networks di oggi… Penso piuttosto che alcuni film usciti dalle primavere arabe ne siano gli eredi (ad esempio il lavoro straordinario di Youssef Chebbi, Ismaël, Eddine Ala Slim, Babylone, 2012).