Sono i viziati rampolli delle classi alte, i Bright Young Things – brillanti ragazzacci che a Londra frequentavano i locali alla moda di Belgravia e Mayfair, sfasciavano auto prestigiose, si cambiavano d’abito prima di cena, in campagna abitavano nelle enormi tenute avite, studiavano a Eton e disimparavano a Oxford, amavano la vecchia tata e sdegnavano i genitori, si scambiavano crudeli battute tra bevute omeriche, amori infelici, tentati suicidi – i protagonisti di Tutti i racconti di Evelyn Waugh, una raccolta (curata da Mario Fortunato e da lui tradotta in parte, e in altra parte da Giovanni Fletzer, Bompiani, pp. 648, euro 19,00) che comprende alcuni testi già pubblicati nel 2012 (L’uomo che amava Dickens, Compassione) da Bompiani.

I primi diciannove racconti (su venticinque, scritti dal 1925 al 1962) riguardano i dimenticati anni, ancora gloriosi per l’aristocrazia inglese, tra le due guerre mondiali. Sono racconti a fondamento sociologico secondo l’umore derisorio, acido di Evelyn Waugh, che a solo ventidue anni aveva già messo insieme il suo primo esercizio di bravura «In equilibrio. Un racconto dei bei vecchi tempi in cui si usavano i pantaloni larghi con le pince e i maglioni a collo alto», quasi tutto fatto di dialoghi dove non è specificato chi parla a chi, alla maniera di Ronald Firbank, che portò quella trovata alla perfezione. C’è già tutto Waugh nell’attenzione sartoriale a cosa indossano i suoi personaggi secondo i luoghi e i tempi, nelle sue ragazze scervellate e cattive, le bellissime incomprensibili, i vecchi bizzarri, i giovani esteti in cerca di una carriera o meglio di una moglie ricca. Quegli impenitenti protagonisti del bel mondo che cercavano passatempi dispendiosi quanto puerili, rimasticavano le ultime briciole dell’estetismo di Wilde e il demi-monde di Firbank, sarebbero gli «attratti e negligenti» – a detta di Foucault – che non tengono in nessun conto quel che stanno facendo, considerano inesistente il passato, vuoto quel che accade all’esterno del loro ambito ristretto, ma hanno tuttavia lasciato una impronta scintillante del loro squisito passaggio; eterni Peter Pan, figurano ancora nelle riviste patinate («Vogue» specialmente) languidi ed eleganti, nelle cronache mondane dei giornali, nei diari, nelle lettere, nei romanzi dell’epoca. E ritornano spesso anche oggi nei film e nella moda, nei cappelli a cloche, nei corpetti e nelle pochette scintillanti di lustrini e gocciolanti di perline, nelle rievocazioni varie. Unica eccezione è il protagonista dell’ultimo racconto «Basil Seal di nuovo in sella o Il regresso del libertino», scritto nel ’62, che lega quel mondo scanzonato ai non meno ruggenti anni sessanta già all’orizzonte. Vecchia canaglia, Basil era riuscito a sposare la ricca ereditiera Angela, e ora affronta un nuovo rivale, il fidanzato della figlia, sfacciato cacciatore di dote come era stato lui, e lo vince barando grossolanamente. Un sottile intreccio di edonismo, estetismo, velleità anarcoide aveva legato i «figli dei fiori» sessantottini ai mondani, scettici, Bright Young Things che stavano per essere inghiottiti dalla seconda guerra mondiale.

Mario Fortunato insieme a Ottavio Fatica ha curato una nuova traduzione di Ritorno a Brideshead, con prefazione dello stesso (Bompiani, pp. 418, euro 13,00) e il sottotitolo Memorie sacre e profane del capitano Charles Ryder, del quale in appendice è data anche una specie di pre-sequel, «Charles Ryder ai tempi della scuola», pubblicata anche nel volume sopra citato, uno scorcio della non facile vita in una public school e dei suoi aspri rituali educativi. Charles Ryder è il personaggio che racconta e agisce nella storia, prima come amico innamorato di Sebastian (nome shakespeariano del bisessuale fratello di Viola nella Dodicesima notte e del protagonista di un romanzo di Vita Sackville West, The Edwardians, 1930) nei meravigliosi anni di Oxford; poi innamorato della sorella Julia. Il primo incontro fra Sebastian e Charles era avvenuto nella felice Oxford anteguerra del 1923. Durante la settimana delle gare di canottaggio tra Oxford e Cambridge i due partono per una gita: Sebastian veste pantaloni di flanella color tortora, camicia di Crèpe de Chine bianca, cravatta di Charvet, al volante di una Morris-Cowley. Il suo inseparabile orsacchiotto è seduto tra i due «‘Controlla che non si senta male’» e via «…a quei tempi si arrivava come niente in aperta campagna».

La dimora di Sebastian, la splendida Brideshead, grande esempio di barocco inglese, è il teatro che incornicia ed esalta l’antica, misteriosa, nobiltà della sua famiglia: le donne appassionate e imprevedibili, gli uomini grandi e insolenti signori; l’aura cattolica che li condanna socialmente, li salva però nell’ora della fine terrena. «Era un corso di estetica vivere tra quelle pareti, vagabondare da una stanza all’altra, dalla biblioteca Soanesca al salotto cinese, scintillante di pagode dorate e statuette con la testa ciondolante, tappezzeria dipinta e ornamenti Chippendale, dal salone pompeiano all’atrio vasto e coperto di arazzi rimasto immutato, com’era stato disegnato duecentocinquanta anni prima…».

L’iniziazione di Charles Ryder, pittore di architetture, era avvenuta per graduali scoperte. Non le opere dei grandi architetti avevano suscitato in lui devota ammirazione, ma gli edifici cresciuti nei secoli, i palazzi, le ville, le chiese in rovina, «mentre il tempo piegava l’orgoglio dell’artista e la volgarità del filisteo, e riparava i danni dell’operaio ottuso». A parlare è pur sempre il puritano Waugh, rimasto «insulare, medievale», borghese. Charles tornerà a Brideshead con il suo battaglione verso la fine dell’ultima guerra: riabbraccia la vecchia tata, l’unica rimasta, e chiude la storia di quella casa profanata, ormai ridotta a scalcinata caserma, e di un’epoca giunta alla fine. Nell’introduzione, Waugh aveva ricordato il clima in cui il romanzo era stato scritto: «…un’epoca fosca, di privazioni effettive e d’incombenti catastrofi – l’epoca dei semi di soia e del basic english – e pertanto il libro è intriso di una certa qual ghiottoneria per cibi e vini, per i fasti di un recente passato, nonché per una lingua adorna, ampollosa, che ora a stomaco pieno mi riesce ingrata. Ho ritoccato i brani più lussureggianti ma non li ho cancellati, in quanto parte essenziale del libro».

A settant’anni dalla sua pubblicazione il romanzo, ormai un classico, ha al suo centro il bellissimo Sebastian, luminoso, irraggiungibile anche nella sua abiezione, e precursore di tanti destini di «insabbiati» in India o in Africa o in un convento. Per quanto Charles Ryder sia nutrito da una linfa autobiografica, il fatto che Waugh si sia convertito al cattolicesimo pesa troppo sulla delicata coloritura della storia. In realtà è l’ombra innominata del sacro che appare di sfuggita al narratore «… forse tutti i nostri amori sono soltanto indizi, simboli; linguaggio vagabondo scarabocchiato sui pilastri dei cancelli e sul lastrico, lungo la faticosa via che altri prima di noi hanno intrapreso; forse io e te siamo prefigurazioni e la tristezza che s’insinua tra di noi alle volte, insorge dalla delusione della nostra ricerca, ciascuno di noi teso attraverso e al di là dell’altro a cogliere di tanto in tanto un barlume dell’ombra che gira sempre l’angolo un passo o due prima». È la simbolica Brideshead, splendida e perduta, a rimanere nella memoria del lettore, una pagina della storia europea.