L’oscurità del Palazzo delle Prigioni che ospita il padiglione di Taiwan con la mostra di Wu Tien-chang (Keelung, Taiwan 1956, vive e lavora a Taipei) Never say Goodbye, evento collaterale della 56. Biennale di Venezia (curato dal Taipei Fine Arts Museum di Taiwan), s’illumina a tratti di colori artificiali.

Ecco che all’improvviso le immagini delle tre installazioni video realizzate con un solo piano sequenza (Farewell, Spring and Autumn Pavilions, Beloved e Unforgettable Lover) – sono esposti anche due grandi light box che reinterpretano le due precedenti opere Our Hearts Beat as One 2001-2015 e Blind Men Groping Down the Lane 2008-2015 – cominciano a scorrere.

Il movimento è quasi impercettibile, le immagini sono accompagnate dalle lampadine che pulsano – vibranti – al suono di canzoni in taiwanese che arrivano da un’altra epoca. Canzoni dell’addio che appartengono al genere giapponese «enka» eredità del dopoguerra.

La performance si ripete, come in uno spettacolo circense, con l’attore-prestigiatore che veste panni diversi – militare, marinaio, aviatore – incantando il pubblico con le sue magie: la chitarra diventa una pianta, per tornare ad essere una chitarra, mentre il fondale suggerisce nuove coordinate di un paesaggio immaginario che cita la realtà. Immagini che svelano il potere immaginifico che per l’artista taiwanese è un escamotage per introdurre alla storia del suo paese, considerato un luogo di transito, o meglio temporanea permanenza, di regimi stranieri che si sono avvicendati – Giapponesi, Cinesi, Americani – imponendo, di volta in volta, la loro cultura.

Il passato, evocato in maniera nostalgica ma anche ambigua, è il punto di partenza per affrontare il tema dell’identità e della storia di Taiwan. Quali sono le possibilità che ha visto nella fotografia, rispetto alla pittura neo-espressionista che ha caratterizzato il suo linguaggio artistico fino al 2000?

Nel 2000 ho abbandonato la pittura ad olio, perché ero arrivato ad un punto in cui non riuscivo più a dire nulla di nuovo attraverso questa tecnica. Prima era stata il mio modo per criticare il sistema politico taiwanese (sfogliando un catalogo precedente indica i suoi ritratti del 1991 dei leader Mao Tse-tung, Deng Xiaoping, Chiang Kai-shek e Chiang Ching-kuo), ma dall’abrogazione della legge marziale, nel 1987, mi sono ritrovato improvvisamente a non avere più nemici. Allora ho cominciato a interrogarmi sulla mia identità di taiwanese.

Prima di quella data il governo ci aveva obbligati a pensare che fossimo cinesi, ma dopo sono cominciati a fiorire i dibattiti sull’identità di Taiwan. Non c’erano più personaggi autoritari che impedivano alla gente di esprimersi liberamente. Nel 1996 nell’isola hanno avuto luogo le prime elezioni democratiche veramente libere.

All’epoca avevo compiuto quarant’anni, mi ero sposato, e mi interrogavo anche sulla mia vita personale. La fotografia mi ha permesso di superare questa impasse creativa. Nel momento in cui si scatta l’immagine, il tempo muore. È come compiere un delitto. Eppure l’immagine che si produce attraverso questo atto criminale rimarrà in eterno. Ho trovato interessante questa sua contraddizione. La fotografia, poi, fin dall’inizio era usata dai pittori come supporto per poter dipingere successivamente in studio, soprattutto da quelli che dipingevano all’aria aperta e che avevano necessità di un tempo più lungo per completare il quadro.

Fotografare il panorama o il modello era come fare uno schizzo. La Prima Guerra mondiale ha cambiato il modo e i modi della fotografia, soprattutto nel caso della ritrattistica. Ad esempio i militari che partivano per la guerra avevano bisogno di lasciare il loro ritratto alla famiglia, perché forse non sarebbero più tornati dal campo di battaglia. È per questo che mi sono innamorato della ritrattistica fotografica.

In particolare in che modo è stato influenzato dal libro di Juan I-Jong, «The History of Chinese Photography»?

Juan I-Jong è un fotografo di Taiwan della prima generazione, in questo libro fa una panoramica sulla ritrattistica cinese, soffermandosi sui volti vissuti ed emaciati dei cinesi degli ultimi cento anni. Ad esempio, prima ancora della nascita della fotografia, nella cultura cinese esisteva un tipo di ritrattistica che si chiamava «xiao zhao». La gente regalava un disegno a carboncino che ne ritraeva il volto per non farsi dimenticare.

La cosa singolare è che per la persona viva si chiamava così, mentre per il defunto il nome del ritratto era «she ying», ovvero fotografia. Il libro di Juan I-Jong è stato un importante riferimento, perché mi ha fatto scoprire anche questi aspetti nostalgici della fotografia.

Cosa rappresenta per lei il momento dello scatto?

Non sono io che lo faccio. Lo faccio fare ad altri. Io preferisco fare il regista, controllando il fotogramma prima dello scatto.

Negli anni in cui a Taiwan era in vigore la legge marziale, quali erano le difficoltà e le strategie per aggirare la censura?

Prima si ricorreva all’astrattismo. Ma poteva capitare – come è successo negli anni ‘60 al mio insegnante di pittura Qing Song – che un segno presente in un suo dipinto fosse interpretato dalla censura come un carattere al contrario del nome di Chiang Kai-shek. Benché non lo fosse, questo gli creò dei problemi. Anche nel mondo dell’arte c’è stato il periodo del terrore bianco.

Qual è il significato della maschera di lattice che indossa il personaggio presente nella video installazione «Farewell, Spring and Autumn Pavilions», realizzata appositamente per la Biennale di Venezia?

La maschera serve per celare l’identità della persona. Chi la porta non è più se stessa, ma è ciò che rappresenta la maschera stessa. Dietro questa maschera c’è il mio paese con le sue due identità diverse. Una si chiama Taiwan, l’altra Repubblica di Cina. Taiwan vorrebbe tornare ad essere Taiwan, ma il Kuomintang continua a dire che siamo Repubblica Popolare di Cina. Ma la maschera è anche un modo per curare le ferite interne, perché in chirurgia esiste un tipo di pelle artificiale che si usa in caso di scottature gravi per proteggere e curare la ferita. In questo caso le molte ferite a cui alludo sono quelle lasciate al paese dall’eredità coloniale.