Dallo scorso 16 ottobre è in libreria l’ultimo libro a fumetti di Zerocalcare Dimentica il mio nome (edizioni Baopublishing, 18 euro) che stasera alle 17 l’autore presenta nell’ambito di Lucca Comics & Games nella Sala Chiesa di S. Giovanni in un incontro moderato da Michele Foschini. Siamo andati a fare due chiacchiere con l’autore di fumetti più in voga del momento, per provare a capire di più su quella che appare come una favola familiare, dove elementi autobiografici si mescolano a elementi fantastici. E senza rinunciare agli elementi di successo dei libri precedenti come il gioco con elementi dell’immaginario collettivo, un linguaggio semplice e diretto. Solo che questa volta oltre alla descrizione minuta della quotidianità e a note autobiografiche, Zerocalcare dimostra qualcosa di più rimettendosi in gioco.
Il libro si apre con la morte della nonna del protagonista, a sua volta disegnatore, e poi prosegue in un rimbalzo tra passato e futuro, ricordi e racconti. Ne esce una trama incredibile che prende le mosse da una bambina piena di sogni nei lontani anni ’20, che finisce nella periferia est della Capitale, nelle mani di un incredulo «giovane adulto» pronto a fare i conti con quello che nascondono le pieghe del tempo.

«Dimentica il mio nome» si dipana senza intoppi, fa ridere e fa piangere. Qualcuno parlerebbe di «maturità artistica»…

Ho imparato a conoscere sicuramente quali sono i miei punti deboli e quelli di forza. In questo senso è come se i lavori precedenti fossero stati dei banchi di prova, dove sperimentare delle soluzioni narrative, prendere le misure dei miei limiti, per poter decidere cosa conservare e cosa eliminare. Per questo già dalle prime bozze ho sempre considerato questo libro come la fine di un ciclo, in cui ho provato a tirare le somme e a mettere a frutto le cose che mi è sembrato di capire in questi ultimi tre anni.

Qual’è stato lo spunto originale di partenza?

Sin dall’inizio ho voluto costruire una storia articolata, ma lavorandoci ho avvertito delle forzature che ero certo si sarebbero percepite anche alla lettura. Ogni volta che io provo un disagio o un rallentamento nel disegnare qualcosa, il lettore se ne accorge e si annoia. Così ho ricominciato, partendo semplicemente dalle mie emozioni, dal mio ricordo della morte di mia nonna, narrando gli eventi così come li avevo vissuti. Così credo di aver scritto delle pagine in cui mi riconosco molto, divise in capitoli molto brevi, in modo che fosse possibile spezzare in più punti il racconto per inserirci dei flashback o degli elementi di fantasia

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Qui fai i conti con la storia della tua famiglia, il vero dalla favola si rendono indistinguibili. Quando ne abbiamo parlato la prima volta mi hai detto «sarà un casino capire quello che posso dire e quello che no, dovrò fare più summit di famiglia». Come sono andati?

In realtà un po’ perché sono pigro, un po’ perché sono restio a far vedere le cose su cui lavoro finché non sono finite, questi summit si sono ridotti ad un paio di G2 con mia madre. Alla fine, non essendoci più mia nonna, è lei quella più esposta, sia sul piano del racconto del dolore e delle emozioni, sia su quello della biografia. Per questo abbiamo stabilito che la prima regola sarebbe stata quella di non rivelare mai pubblicamente quali sono le parti vere e quali le parti di fantasia.

Nei tuoi fumetti alla realtà si mescola il filtro surreale dei personaggi di serie tv e cartoni, amici immaginari e antropomorfi. Ma questa volta l’elemento fantastico è anche qualcosa di più, diventa parte del racconto…

L’elemento fantastico non mi serviva solo come «scorciatoia», come faccio di solito con i personaggi della cultura popolare, per parlare ad un background collettivo. Qui c’era una storia che da un lato si prestava ad essere raccontata in maniera fantastica perché contiene degli elementi che ai giorni nostri sembrano impossibili, e dall’altro lato metteva a nudo vicende ai margini della legalità –anzi, in certi casi decisamente fuori – che volevo raccontare con una sorta di «filtro», per evitare di esporre troppo le persone coinvolte.

I libri a fumetti, tranne rare eccezioni, sono sempre più poveri di testi. Si preferisce puntare sull’effetto grafico. Il tuo è un caso in contro tendenza…

Non sono particolarmente felice di essere una di quelle eccezioni, io sono un fan delle storie semi-mute. Ma io per raccontare una cosa, pe far ridere- e forse è un mio limite – ho bisogno di essere prolisso. Per questo cerco di infilarci dentro cose buffe ogni tanto, così da evitare l’effetto «mattone». Almeno me lo auguro…

Il quinto libro in pochissimo tempo, più di 200 mila copie vendute come recita la quarta di copertina di «Dimentica il mio nome». Ora ti sei convinto che scrivere libri a fumetti sia un lavoro vero?

Mi sono convinto che in questi tre anni lo è stato, quello sicuramente. Io però sono cresciuto con l’idea che il lavoro vero sia quello che ti porti appresso fino alla pensione, mentre col fumetto mi sento sempre sull’orlo del crepuscolo. Però mi pare come una rote condivisa praticamente da tutti gli altri settori…

Recentemente sei apparso in un video di una occupazione romana, Hierba Mala, che, pur avendo avuto vita brevissima, tornerà presto a far parlare di sè. Raccontaci il progetto e le ragioni del teuo impegno in prima persona…

L’occupazione di Hierba Mala nasce per riappropriarsi di uno dei tanti spazi abbandonati della città di Roma e di restituirlo alla collettività, attraverso una serie di progetti che cercano di tenere insieme e di mettere in comune produzione e formazione. Insieme ad altri fumettisti abbiamo pensato che quella potesse essere finalmente la casa dove dare stabilità e continuità alle esperienze nomadi ed itineranti accumulate negli ultimi anni, di autoproduzione di fanzine, di presentazioni di libri e fumetti, ma anche di workshop e di momenti di formazione e di scambio che hanno avuto luogo in vari centri sociali della capitale. Insieme all’esigenza nostra di avere uno spazio dove lavorare insieme, ci siamo accorti di un’altra esigenza, diffusa, di tanti ragazzi e ragazze che hanno scelto il fumetto come mezzo d’espressione e che hanno sete di confronto e di apprendimento, senza avere necessariamente i mezzi per entrare nei canali tradizionali delle scuole di fumetto esistenti a Roma. Hierba Mala vuole –anche- essere un modo per crescere insieme.

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Punk, oi, sottocultura, borchie e creste. Tutto questo fa parte della tua identità («ho cominciato facendo le locandine dei concerti» è l’incipit di tante tue interviste), ora hai disegnato una bellissima copertina per un disco fatto assieme dai gruppi romani Klaxon (dei veterani) e i più giovani Ultimi. Cosa vuol dire per te?

Per me vuol dire tantissimo, più di mille classifiche di vendite o di premi di qualche tipo. Perché è il filo che mi lega alla mia identità, alla mia famiglia di sempre. Per me fare le locandine dei concerti a cui vado significa continuare a dare il mio piccolo contributo ad una scena che mi ha dato tantissimo nel corso degli anni. E disegnare la cover per il disco dei Klaxon e degli Ultimi significa poter dire «ci sono anche io», in mezzo a voci e chitarre che mi accompagnano da piu di 15 anni. È stato come se a mia cugina nell’86 avessero chiesto di disegnare la copertina di un disco dei Duran Duran.