Quando il 9 agosto del 2008 venne confermata la notizia che Mahmud Darwish era morto a Houston rimanendo sotto i ferri nel corso di una operazione a cuore aperto, lo scalpore per la scomparsa di un poeta che allora aveva poco più di sessantasei anni (era nato infatti al al-Birwa nel 1942) fu tutt’uno con il venir meno, nel senso comune, di una figura che da tempo veniva associata alla tragedia del popolo palestinese e prima ancora a una modalità di canto frontale, magnanimo e pienamente dispiegato, che lo assomigliava volentieri a Neruda o a Garcìa Lorca, dunque a un autore per cui dire «io», modulare la voce secondo un’attitudine lirica, poteva equivalere al «noi» e all’epica di una collettività ferita e umiliata.

Anche in Italia, nonostante venisse recepito in sedi normalmente periferiche (per esempio nella silloge La mia ferita è lampada ad olio, De Angelis 2006, o nel collettivo In un mondo senza cielo: antologia della poesia palestinese, Giunti 2007, entrambe curate da una studiosa benemerita quale Francesca Maria Corrao), la scheda di Darwish poteva dirsi acquisita e si sapeva infatti che egli era uno dei maggiori poeti di lingua araba, che era vissuto a lungo in Israele (nei termini di un sans papiers, subendo a lungo carcere e arresti domiciliari), che era stato membro dell’esecutivo dell’Olp e nel ’67, dopo la Guerra dei sei giorni, un esponente della «letteratura di giugno», nonché, successivamente ai massacri in Libano del 1982, un esule in Francia e in Tunisia. Era anche noto, da una pubblicistica che riferiva delle sue precise e a volte discusse posizioni sulla occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele dopo gli accordi di Oslo, che Darwish, pur essendo divenuta una star internazionale, era tornato a risiedere tra Amman e Ramallah. Ma se pochi erano stati necessariamente i lettori dei suoi versi, non molti di più possono tuttora annoverarsi da noi i lettori della sua produzione memorialistica e pubblicistica che di quei versi medesimi costituisce il sostrato ovvero il palinsesto itinerante.

Per questo è un’ottima notizia, anzi una azione editorialmente esemplare, l’uscita di Una trilogia palestinese(prefazione e cura di Elisabetta Bartuli, traduzioni di Elisabetta Bartuli e Ramona Ciucani, Feltrinelli «Comete», pp. 410, euro  25,00) che di Mahmud Darwish raccoglie le maggiori prose di intervento e riflessione. Non si tratta propriamente di scritti politici, se non pensati per via figurata o indiretta, e nemmeno si tratta di semplici digressioni di poetica, ma piuttosto di un personale zibaldone che, muovendosi nello spazio e nel tempo (vale a dire dentro una vicenda segnata prima dalla subalternità reietta poi da una esclusione presto divenuta aperta persecuzione), focalizza sia la mozione sia i tramiti e la destinazione del suo pensiero poetico. Il volume si compone di tre testi in prosa unitamente a una partitura in versi, Il giocatore d’azzardo, che ne rappresenta sia un successo a livello internazionale (perché Darwish da ultimo leggeva negli stadi, essendo ormai incapienti i teatri per la sua ricezione dal vivo) sia un vero e proprio testamento scritto nei modi di un poema autobiografico che ne ritraccia il percorso e, insieme, ne suggella la voce inconfondibile, quella di un bardo suo malgrado o, meglio, di un poeta dai sentimenti lievi e struggenti ma costretto dalla calamità dei tempi a essere un poeta epico.

Accomuna i testi in prosa la traccia autobiografica, ora in evidenza ora invece straniata e tradotta o rivissuta in figure allegoriche. Il Diario di ordinaria tristezza (1973), scritto da un Darwish appena trentenne, è il diagramma di un terribile apprendistato, il curriculo di un figlio della Nakba (la disfatta palestinese che nel ’48 coincide con la nascita dello Stato di Israele), l’apprendistato di un paria e nello stesso tempo di un esule nella sua stessa terra, il verbale di un ragazzo senza patria né destino, di un uomo deprivato persino del sentimento della nostalgia, il quale scrive con grande limpidezza: «La patria non è soltanto terra, ma terra e diritto insieme. Tu hai il diritto, loro hanno la terra. Dopo essersi impadroniti della terra con la forza, hanno cominciato a parlare di diritto acquisito. Il loro ‘diritto’ era storia e ricordi ed è diventato terra e forza. E tu, senza forza, hai perso la storia, la terra e il diritto».

Sono queste le parole di un poeta ancora dichiaratamente engagé ma che si appella tuttavia alle ragioni dell’universalismo illuminista, agli ideali della libertà individuale e della eguaglianza sociale, temendo, o ignorando deliberatamente, i contraccolpi e i contenziosi d’ordine etnico e religioso (vale a dire arabi contro ebrei, il Corano contro la Torah) che oggi schermano la natura del conflitto e spesso lo travisano in una metafisica identitaria.
Accusato da più parti di avere receduto o abiurato dalla sua pratica di militante, il poeta che scrive Memoria per l’oblio (1987), la seconda tranche accolta nel volume di Feltrinelli, è colui che non solo in astratto ma per necessità, avendone pagato il prezzo in prima persona e scrivendo dell’invasione e delle stragi a Beirut del 1982, da un lato mantiene salda la convinzione che quella israeliana sia una politica bellicista e colonialista (con evidenti venature razziste, antiarabe e islamofobe), ma dall’altro distingue nettamente, senza mai confonderle, le nozioni di «ebraismo», «sionismo», «stato di Israele» e «governo di Israele» (proprio quando pochi rammentano che da ormai quarant’anni, con brevi intervalli, a Tel Aviv è egemone una destra sostenuta da ideologie etnocentriche e fanatismo religioso). Darwish peraltro sa benissimo che sono stolti e sommamente pericolosi coloro che gabellano per antisionismo un sottaciuto e sostanziale antisemitismo ma sa altrettanto che non lo sono meno, stolti e pericolosi, coloro che gridano all’antisemitismo ogni volta che sono avversate le scelte rovinose dei governi di Israele che da decenni mantengono il popolo palestinese in regime di cattività e di perpetua rappresaglia militare.

L’ultima stagione del poeta, antipode rispetto alla violenza tellurica ma anche al virtuale ottimismo del suo esordio militante, è caratterizzata dalla introiezione e dalla compiuta metabolizzazione della figura dell’Altro, che è sì l’occupante, il nemico, ma non più soltanto il nemico se non nella misura in cui quest’ultimo rigetta il fatto di essere un uomo senza possibili aggettivi mentre accetta viceversa il ruolo della pedina in armi, della smemorata figura di persecutore, della accecata comparsa e di complice nella disumanizzazione delle vittime designate. In presenza d’assenza (2006), cento pagine incandescenti a sfida della traduzione di Ramona Ciucani che ne insegue il passo precipite e gli snodi repentini, sono di poesia-pensiero allo stato puro, laddove il pensare e poetare si danno come un testamento in cui configgono e si scoprono reciprocamente necessari «ebraismo» e «palestinità», memoria della antica persecuzione e denuncia di un’altra e incombente persecuzione spesso agita come un riflesso condizionato.

Qui il pensiero della poesia fa tesoro, senza nulla confondere in termini di storia geografia, di una comune humanitas e del fatto che avere subìto violenza e vessazione non immunizza, di per sé, l’ex vittima dal prodigarla altrui con cecità e cinismo. Alla fine, per Mahmud Darwish, il «tu» non è tanto l’istituzione più convenuta della poesia ma il pronome fatale di un riconoscimento compresente, e si direbbe consustanziale, di Sé e dell’Altro. Costoro, entrambi, non possono scampare alla condizione di mutuo riconoscimento, di accettazione della propria specificità e perciò dal computo spietato degli errori e delle colpe rispettive. Tale computo, fra israeliani e palestinesi, non è affatto a somma zero (purtroppo lo sappiamo), ma un passaggio del poema terminale di Darwish, Il giocatore d’azzardo, indica comunque una insperata direzione: «O amore, cosa sei? Quanti tu sei / o non sei? O amore. Scatena su di noi / tempeste di suoni affinché diventiamo / quell’incarnazione celeste che ami per noi, / riversati in un condotto che trabocca da ambo i lati, / poiché tu – evidente o latente – non hai forma / e noi ti amiamo quando amiamo per caso. / Tu sei la fortuna degli infelici».