Leggére, amorevoli, pettegole e narcisistiche, le pagine di memorie di Berta Zuckerkandl, scritte con la distanza dell’età e una grande nostalgia dell’Impero, introducono civettuole in uno dei salotti buoni della Vienna del finis Austriae e oltre, tra i personaggi che hanno fatto grande la sonnolenta capitale asburgica:Berta Zuckerkandl è una buona artigiana: ha pubblicato tre libri e un gran numero di articoli per la Wiener Allgemeine Zeitung e il Neue Wiener Journal, ha tradotto dal francese più di cento opere teatrali che hanno avuto la gloria delle scene e l’interesse del pubblico viennese, ma soprattutto è stata l’ultima salonnière del bel mondo antico: ha cenato «con Dio e con il mondo», organizzato feste, cene, matrimoni, spettacoli, è stata musa e protettrice degli artisti dell’avanguardia, ha scoperto Schnitzler, apprezzato Bahr, accolto Hofmannsthal, ha adorato Mahler e Strauss e ha osannato Girardi e Max Reinhardt.

È a casa sua, dicono le cronache, che Klimt decise di uscire nel 1874 dal Künstlerhaus, a casa sua il giovane Schnitzler trova sostegno contro il padre deluso, e qui si incontrano i nomi che hanno fatto la storia della Moderne: Otto Wagner, Josef Hoffmann, Koloman Moser, Alfred Roller.

Ma soprattutto – scrive R. Federmann nella postfazione di Österreich intim, il libro che oggi Archinto propone in italiano per la cura di Giuseppe Farese che ci regala un’ottima traduzione (La mia Austria Ricordi 1892-1937, pp. 208, euro 25,00) – «ha telefonato, telefonato e telefonato».

Ed è una rubrica telefonica uscita quasi per caso dalla valigia a suggerirle di compiere un viaggio a ritroso nel tempo. L’autrice ha 82 anni, è a Parigi dopo anni di esilio e con orgoglio pone la sua figura di intellettuale ebrea e viennese al centro di un mondo di civiltà che il nazismo non era riuscito a distruggere: «Quando si è esuli il ricordo vaga in cerca della patria, si abbarbica a quei nomi e ai numeri dell’elenco, e dolcemente ti riporta a quel passato, ti mette in mano la penna e ti sussurra all’orecchio…».

Quel taccuino si trasforma lentamente in frammenti di un controcanto leggero ad altre più tristi memorie, scritte da autori più coscienti e malinconici – da Schnitzler a Zweig: riviviamo il mito dell’attore, l’amore dell’arte, il piccolo mondo felice che sicuro non è più, ma che ancora si sente protetto, un decadentismo frenato da tutti i valori dell’ebraismo tedesco, un senso elitario della strada che in così pochi anni se è fatta. Il filo dei numeri di telefono è sottile, come la verità dei ricordi: si può dubitare che le parole trascritte siano quelle vere, pensare che la rappresentazione sia idealizzata, come il ruolo che Berta si regala nelle piccole e grandi cose (dal matrimonio di Mahler al festival di Salisburgo); si può sospettare delle lettere alla sorella (sposata con il fratello del ‘grande’ Clemenceau), ma, comunque sia, nei suoi medaglioni il passato rivive convincente e rasserenante.

Al centro dei ricordi c’è un salotto di ebrea assimilata, colta e appassionata, che, però, non ha più il fascino esotico di quelli di Rahel Varnhagen (allora si chiamava ancora Levin) o di Henriette Herz, che avevano raccolto all’inizio dell’Ottocento il mondo intellettuale e letterario della inquieta capitale prussiana. Né la Zuckerkandl può vantare parentele con la vera aristocrazia ebraica di Vienna, nobilitata da tempo e senza obbligo di conversione, i Wertheimstein, i Gomperz, gli Auspitz; quella classe inarrivabile, che detta le mode senza chiasso e che fa sognare il giovanissimo Hofmannsthal proponendo modelli inattingibili di aristocratica distanza dalle cose del mondo.

Bertha Zuckerkandl è figlia di un ebreo galiziano, Moriz Szeps, giunto a Vienna nel 1854 per studiare medicina; poi, senza che un titolo accademico giungesse a riscattare la sua incerta biografia, diventa redattore capo del Morgen Post e sposa la sorella di un suo sventato e creativo collega, Sigmund Schlesinger. La sua è una veloce carriera tra i fondatori di un foglio della sinistra liberale, il Neue Wiener Tagblatt, strappato alla osservanza governativa in poche mosse geniali. Il nuovo direttore ne fa la tribuna per una conversione politica dell’Austria, coinvolgendo anche il fragile principe ereditario Rodolfo nella sua battaglia: immagina un’alleanza con la Francia, un allontanamento dalla Germania, maggiore democrazia e il trionfo di un vero spirito progressista.

Ed è qui che inizia a lavorare giovanissima Berta, nata nel 1864, in una simbiosi con il padre che avrebbe interessato forse il più famoso vicino di Berggasse. La fanciulla di buone letture entra così nella élite minore dei giornalisti (ma anche editori, direttori di teatro, organizzatori culturali) ebrei che, appena inurbati, propongono una nuova politica, una nuova cultura e una nuova lingua, scatenando le ire dei conservatori e gli strali di Karl Kraus che, contro i «gazzettieri» (e tra questi il più disprezzato è addirittura Heine), scatena una delle sue battaglie più brillanti e ossessive.

Pagine esilaranti sono dedicate con lampante ingratitudine ai salotti delle dame di questa borghesia ebraica: Schnitzler, nella Strada verso la libertà, descrive in modo impietoso i ricevimenti della signora Ehrenberg. Ironici i commenti sulle serate di Eugenie Schwarzwald scritti da Friedell, Dörmann, Canetti; Musil nell’Uomo senza qualità la prende a modello (insieme per altro alla nostra autrice) del personaggio di Diotima, influente quanto superficiale, regolarmente incapace di mettere insieme le persone giuste; Kraus la dileggia negli Ultimi giorni dell’Umanità come esempio della piatta borghesia del tempo.

Kraus non risparmia neppure la Zuckerkandl, che tra l’altro aveva la macchia di essere una convinta sostenitrice dell’arte moderna: le rimprovera lo stile da feuilleton e ironizza sul fatto che parlasse e scrivesse tedesco come una francese. Ma in realtà con lei i dissacranti scrittori del mondo di ieri sembrano esercitare una certa temperanza: si tollera che i suoi libri fossero messi – così diceva Friedell – a seconda del colore e non si infierisce sulla sua produzione letteraria gracile, ma mai pretenziosa. Piace il coraggio nella difesa degli ebrei ovunque fossero perseguitati, la passione con cui segue e difende le novità e piace il suo amore per la ricchezza della cultura asburgica che per lei è un «delirio delle esperienze, dell’energia creativa. Una vulcanica esplosione di genio e talento… Misteriose connessioni attraversano lingua, colori, forme, suoni e conoscenza del mondo. Nell’imponente, uniforme rinnovamento europeo, che partì verso il 1860 dalla Francia, l’Austria ha esercitato dal 1890 un ruolo di primo piano».

Il suo fascino era una leggera, composta e vibrante libertà e così la ricorda una delle dame sapienti della Vienna del tempo, Helene von Nostitz: «Come devo descrivere l’atmosfera piacevole e animata del salotto di Berta Zuckerkandl? Berta era chiara e graziosa, nuova, percepiva intensamente il Nuovo. Era amica di Klimt e Mahler e pioniera delle Wiener Werkstätten. Lei agiva come un fiore esotico nel suo variegato arredamento realizzato da Hoffmann. Perlopiù la si vedeva seduta sul suo lungo divano, circondata da giovani pittori, poeti e musicisti, che si trovavano sempre molto bene da lei, perché lì spirava un’aria diversa, libera. Qualcosa di autonomo, d’irreale, mai pesante, l’avvolgeva piacevolmente. Si era con lei sempre ottimisti nel credere a un futuro, per quanto fosco potesse apparire».