La rivendicazione è arrivata a distanza di qualche ora dall’ennesimo attentato coordinato e che questa volta prende di mira Jakarta, la capitale del più popoloso Paese musulmano del pianeta. Prima un sito vicino al sedicente Califfato poi un messaggio di Daesh che certifica la nuova battaglia contro i «crociati» anche se per la verità, nel cuore di Jakarta, di crociati ve ne sono pochi: tra le vittime ci sono un canadese e un indonesiano (il bilancio è di sette morti di cui 5 sono attentatori, tutti locali) e nella ventina di feriti un algerino, un austriaco, un tedesco e un olandese. Sembra più un caso che un target. La dinamica dell’attentato multiplo è ancora confusa: il numero degli attentatori a cavallo di motorini varia sino a 14.

Le esplosioni sarebbero state almeno sei o sette e sembrerebbero imputabili a tre kamikaze (che fan saltare una baracca della polizia a un incrocio) e a lanci di granate. Un kamikaze entra da Starbacks, la catena internazionale del caffè, fa poco danno ma gli avventori entrano nel mirino dei jihadisti all’uscita dall’edificio.

Ci sono già i primi arresti e la conferma che ci sarebbe proprio Daesh dietro una tentata strage che in realtà è un mezzo fiasco: la paura c’è tutta e nel mirino forse anche ambasciate e una sede dell’Onu ma nella realtà è la popolatissima e popolare zona del Sarinah, uno dei primi centri commerciali della città, a farne le spese e con lei i tanti feriti colpiti dalle schegge di detonazioni tutto sommato poco potenti. Con la paura c’è anche l’effetto mediatico: l’Indonesia come la Francia, Jakarta come Parigi. Lo spettro della guerra totale ancora una volta la fa da padrone colpendo la quotidianità dello shopping in una zona frequentata da ricchi e poveri, magnati in auto sportive e venditori ambulanti.

Le piste sono diverse. Quella di Daesh, secondo la polizia indonesiana, porterebbe a Bahrun Naim, un locale che starebbe combattendo in Siria. La polizia aggiunge che dietro il colpo ci sarebbe anche il tentativo di prendere il comando dei simpatizzanti di Daesh, un movimento che è presente in Indonesia ma senza grandi numeri anche se, alcuni giorni, fa la polizia ha arrestato una serie di sospetti affiliati allo Stato islamico che avrebbero avuto in mano piani di attacco a diversi località nazionali tra cui la capitale. Un piano, dicono gli inquirenti, finanziato con denari provenienti da Raqqa.

Ma in Indonesia c’è anche Al Qaeda: gli attentati – riferisce la Bbc – sono stati preceduti, l’altro ieri, da un messaggio audio di Ayman al-Zawahiri rivolto agli indonesiani e ai musulmani nel Sudest asiatico. Messaggio che li esortava a colpire interessi di Usa e alleati. Poi c’è la pista Abu Bakar Bashir:

Condannato a 15 anni di prigione per un campo di addestramento jihadista, Bashir è considerato il leader spirituale della Jemaah Islamiyah, l’organizzazione terroristica responsabile della strage di Bali del 2002 rivendicata dai qaedisti. Bashir se l’è sempre cavata ma proprio due giorni fa si è visto rifiutare un appello che richiedeva l’applicazione di una sentenza minore comminatagli da una corte di giustizia ma il cui verdetto è stato annullato. Bashir avrebbe giurato fedeltà a Daesh nell’agosto del 2014 ma secondo alcune fonti avrebbe poi ritrattato l’adesione che aveva creato divisioni nel suo gruppo, la Jemaah Ansharut Tauhid (Jat), fondata nel 2008 proprio per non farsi coinvolgere nelle indagini sulla JI.

Il quadro insomma è complesso. Certo Daesh ha un progetto nel Sudest asiatico: dei 30mila non arabi che pare combattano per Daesh, quelli di quest’area sono solo alcune centinaia e gli indonesiani han scelto la linea dura: chi va in Siria (5 o 600 persone) non potrà più tornare a casa. Per adesso nell’arcipelago non si è andati più in là di manifestazioni di sostegno a Daesh – come quella organizzata a Giacarta dal gruppo Islamic Sharia Activists Forum – o dell’adesione di vecchi maestri di jihadismo come nel caso di Bashir. A occuparsi di questi problemi c’è comunque Densus 88, un gruppo d’élite anti terrorismo dalla mano pesante. L’Indonesia infine ha una tradizione di islam moderato che vede i gruppi più importanti del Paese condannare Daesh e venir coinvolti dal governo per evitare che il contagio degeneri.

Sul piano strettamente locale le cose sono però confuse dal fatto che le indagini hanno spesso portato le autorità a fare i conti con la malavita locale, uomini d’affari e agenti deviati, legati da una rete nostalgica della vecchia stagione della dittatura del generale Suharto, durata trent’anni e abile nel manovrare gruppuscoli e sigle per controllare l’opposizione. E con una vocazione al caos da cui far uscire una nuova richiesta di ordine che riproponga il pugno di ferro e gli affari che il clan Suharto garantiva a una compagine di affaristi protetti dal regime.