L’ultima utopia di un mondo globalizzato e’ forse abitare completamente la propria lingua. L’ultima delle residenze possibili pensava già nel secolo scorso Fernando Pessoa quando con certezze inappuntabili scriveva che il suo paese era la lingua portoghese e in tanti lo seguirono su tale indirizzo. Ma, la lingua del teatro in quale paese può abitare, soprattutto come possederla e piegarla a passioni e desideri, anche condivisi? Le grandi teorie novecentesche spesso in contrasto con le pratiche quotidiane hanno esternalizzato, almeno creduto di farlo, il poter fare teatro al di fuori del teatro stesso. Gli esempi sono molti; l’elenco e’ lungo e scomodare nomi servirebbe a poco; sta il fatto che nel solco dei grandi utopisti del teatro del passato, pur in dialogo continuo e con molti distinguo e in costante crescita intellettuale e artistica, un piccolo e magnifico miracolo teatrale italiano si protrae da più di venticinque anni a Volterra con Armando Punzo e La  Compagnia della Fortezza, interamente formata da detenuti, tra i quali e’ contato anche Aniello Arena, il protagonista pluripremiato di “Reality”, film di Matteo Garrone. Ora, nel carcere di Volterra si sta tentando di realizzare, con una battaglia civile di rara intensità e a piccoli passi, la più grande delle utopie possibili: l’istituzione di un Teatro Stabile che soltanto cecità politiche non hanno ancora reso concreto. Detto questo: l’edizione 2014 del Volterra Teatro (dal 21 al 27 luglio prossimi, calendario e spettacoli, dai Sacchi di Sabbia, già ospiti del festival con le strisce autobiografiche di Gipi, i 25 anni delle Ariette, fino all’ulteriore suite su Ligabue “pitùr” di Mario Pirrotta, convegni di Rete Critica, l’arte irregolare di Bianca Tosatti, e ancora mostre fotografiche e installazioni, tutti alla mano su www.volterrateatro.it) consente grazie alla messa in scena del nuovo spettacolo “Santo Genet” di far scivolare nell’imbuto cavo delle buone intenzioni ogni possibile e impossibile riflessione sui modi di far teatro del regista e attore napoletano. Infatti, con il primo movimento – già messo a referto in tre repliche lo scorso anno e con le repliche d’oggi – Punzo e’ riuscito (e riuscirà nei “medicamenta” poetici) ad estremizzare tutte le componenti fisiche, psicologiche e filosofiche che innervano i suoi attori e il suo teatro. Nei fatti, in uno dei bracci al pianterreno della fortezza volterrana il lungo corridoio e alcune stanze di detenzione temporanea sono state letteralmente occupate dalla fantasmagorica scenografia, tutta specchi, brocchi e drappi, che in certo qual modo seppelliscono in un gioco di rifrazioni di particolari sia il pubblico sia gli attori che rigurgitano a ripetizione brandelli della funambolica opera dello scandaloso scrittore e drammaturgo francese (non è da poco l’esperienza carceraria vissuta da Genet, diverso tra i diversi); i rimandi alla sua opera vengono filtrati anche attraverso celebri figure cinematografiche: i marinai del “Querelle” fassbinderiano, che accolgono gli spettatori in pose classicheggianti su un opening mistico prelevato da Teresa d’Avila, non sono altro che tableaux vivants, cifra stilistica degli allestimenti in progress di Punzo (l’ultimo dei quali riguarda il “Mercuzio”, in quel di Firenze nelle stanze e negli androni di Palazzo Strozzi, coinvolto alla “maniera” di Rosso Fiorentino, una delle paternità pazze di Pier Paolo Pasolini, nome che, con Brecht Leopardi Dalì Kafka e ancora Genet, rinserra le fila dei suoi ispiratori, assurti a topoi rimodulati negli spazi “aperti” dei cortili del carcere), che si scorniciano alla lettura degli appunti aforistici del regista con la sua incessante e puntuta critica al sistema teatrale italiano. La lotta per un Teatro Stabile nel carcere, il primo al mondo, diventa, dunque, lotta non solo di resistenza, ma per l’esistenza. Protagonista assoluto e cubista e’ lo stesso regista-demiurgo che, copione alla mano, con una recitazione-guida rovescia la teatralità genetiana dei suoi attori in un scambio non solo culturale, ma sociale con il pubblico, scomponendolo in ogni singolo individuo alle prese con la propria coscienza di uomo o di donna, in un dentro e fuori del carcere che si esteriorizza, come è già accaduto, nel cuore pulsante della città etrusca, Piazza dei Priori: “ferrigna asserragliata come un cortile” se si accoglie il suggerimento di Cesare Brandi e più in su quello urlato da Punzo del “carcere come metafora del mondo esterno”. Pertanto, è anche la città che si fa prima spettatrice dello sfregio culturale inferto ad un intero paese. Più che richiami stenografici ad una facile estetica dannunziana, mediati nel corso del ‘900 anche da un film incompreso, per altre ragioni, come “Vaghe stelle dell’Orsa” di Luchino Visconti, qui a spallate trova sede temporanea una militanza politica e civile pasoliniano-brechtiana da cui per altre vie, sempre suggerite dallo storico dell’arte senese, discende che Volterra: “è una città che non si contamina con la falsa poesia; dura ferrigna aperta al sole e ai venti come una tragedia antica”. Ed, infatti, le balze sembrano il palinsesto sul quale grattare le lacerazioni interiori di una coscienza civile a cui non sta bene affrancarsi dalle ferite inferte dall’incuria umana al territorio. E da quest’inverno lo sgretolarsi delle mura volterrane sono la “ferita”, semplice da suturare e allo stesso tempo difficile da curare, perché più profonda e disturbante, al quale si oppone il gigantescorito teatrale collettivo La Ferita/Logos-Rapsodia per Volterra, site-specific espanso all’intera città, palcoscenico continuo, in cui “annodare con più forza le relazioni, ritessere i rapporti umani, ripensarsi e ricostruirsi in quanto comunità”.