Ora che la morte ha compiuto il suo montaggio (come scrive il Pasolini del tempo in cui «supervisionò» la fondazione di Cinema & film) questo ricordo, oltre che forzatamente incompleto, sarà anche non all’altezza del costante bisogno di Adriano di possedere, come Rossellini, un metodo. Era, questo metodo, tra le cose che certo più ammiravo in molte azioni di Aprà: nell’insuperabile costruzione di un monumento vitale a Rossellini come nel riconoscimento della centralità di Dreyer a cui come me costantemente tornava; certo anche nella bellezza artistica della sua produzione editoriale, dal fascino anche grafico della rivista Cinema & film alla perfezione dei cataloghi per le retrospettive veneziane di Hawks e Mizoguchi; ma persino nel modo in cui sconfinò sul «mio» Camerini, scrivendo sulla rivista Cabiria un testo sulle versioni di T’amerò sempre che riconobbi come il più illuminante studio su un regista di cui lungamente mi occupavo.
Ma per amare davvero queste realizzazioni perfette mi sembrerebbe sterile pensare solo a un’acribia e a un rigore critico. Credo che per apprezzare davvero quelle opere di Adriano sia necessario (e certo non per ridimensionare i suoi meriti) cogliervi, come nella musica di Bach e nel cinema di Dreyer, un intervento divino: non saprei di quale Dio perché come per Bazin, Rohmer o anche Dreyer e Rossellini, e per quanti a essi si riferiscono, non sembra decisivo l’essersi sottoposti a un battesimo.

Nel ricordo di Adriano però trovo indispensabile unire all’ammirazione di un metodo un profondo affetto per i suoi scarti. Non ho mai sentito il bisogno di riconoscergli un ruolo di padre, come lui avrebbe certamente gradito, perché alla costante presenza di questo sottofondo paterno, che certo riconoscevo, si univa una pari simpatia per i «detour» del suo carattere rispetto a questo ruolo. Se pochi potevano non riconoscere la sua intelligenza critica (e ricordo come Alessandro Cappabianca e Maurizio Grande, allora collaboratori di una Filmcritica da poco impoverita dalla sua uscita in Cinema & film eppur sempre capace di donarsi un Giuseppe Turroni, abbiano visto in Adriano una sensibilità per il cinema somma), tuttavia il fattore umano di Adriano ha provocato talvolta delle incompatibilità con persone altrettanto ferme a cui volevo altrettanto bene, penso per esempio a Michele Mancini e Angelo R. Humouda. Io mi sentivo più in sintonia con Marco Melani o Gianni Menon, che su certe cose di Adriano potevano anche ironizzare senza in nulla rinunciare a una definitiva amicizia affettuosa.

Credo che tra i cineasti italiani che ad Aprà erano più indispensabili (col massimo Rossellini) sia importante soffermarsi sul doppio imperfetto costituito da Raffaello Matarazzo e Luigi Comencini.
A essi (come a Blasetti, Bianchi, Lattuada, Risi) curiosamente egli non era arrivato nella sua giovinezza critica, pur avendo tra gli stretti collaboratori a Cinema & film un Maurizio Ponzi per cui il cinema di genere italiano era materia viva sin dall’infanzia. Ma allora abbracciare Rossellini, il primo Pasolini, Straub e Huillet, Bene, Ferreri, Schifano e un po’ Olmi e De Seta come massimi splendori del cinema italiano poteva richiedere di lasciare nel fuoricampo molto altro. Ma nel cinema, si sa, il fuoricampo entra prima o poi in campo, e in ciò per me è esemplare la scoperta di Matarazzo, il cineasta del fuoricampo degno di Griffith: e se brevemente Adriano chiuse questa scoperta nel banale discorso della popolarità, per lui come per me il Raffaello del cinema s’imporrà a ogni film ritrovato come uno dei grandi più quintessenziali, accanto a Dreyer e McCarey. Anche su altri cineasti cosiddetti di genere l’acume critico di Adriano ha lasciato il segno, persino su qualche regista di cui si è occupato poco come Carmine Gallone che lo sentii ribattezzare «Carmine di Trastevere».

Qui mi preme il rapporto tra Matarazzo e Comencini, due autori che non possono che illuminarsi a vicenda, nel rapporto per esempio tra cattolicità e agnosticismo. tra centralità della famiglia e suo sgretolarsi. Ed entrambi, in modo diverso e convergente, colgono la debolezza della figura paterna, con innesto perfetto sulla paternità centrale in Rossellini. Incompreso (Vita col figlio), come scandisce il titolo italiano, credo sia un film da rivedere per sentire ciò a cui Adriano, non sempre volendolo, giungeva: quello spogliarsi di ruoli, di certezze mondane, di gerarchie generazionali ci è più necessario che mai.

Sergio Germani

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Non ha mai smesso, e gli dobbiamo tantissimo
di Sandra Lischi

Quando Adriano Aprà venne a Pisa e, con Gianni Menon, condusse il seminario su Rossellini (con le proiezioni e poi un incontro col regista) era il maggio 1969, avevo diciotto anni. Quel dibattito lucido e stralunato con giovani e cinefili divenne un libro, presto introvabile finché Aprà e Menon non decisero di pubblicarne una nuova edizione, nel 2009, arricchita da testimonianze, quarant’anni dopo, di vari partecipanti di allora. Quante svolte in quelle giornate, quante passioni e quanta luce negli occhi dei miei amici più grandi, fra cui i fondatori dell’esperienza pisana del «Cinema Zero».

Quando Adriano tornò a Pisa fu per una retrospettiva di Dreyer: prima di rispedire i film li passavamo lentamente alla moviola commentando l’opera di un autore da lui studiato e amato senza sosta. Quando Adriano mi mandava notizie dai suoi viaggi a New York e in Canada, pensando anche alla tesi che stavo scrivendo. Il videotape, le esperienze di TV comunitaria. Il libro di Gene Youngblood sul cinema espanso.

Quando Adriano a Pesaro curò la rassegna «L’altro video», nel settembre 1973, che ci fece conoscere le esperienze della Guerrilla Television e le prime attività italiane (e con uno straordinario Quaderno di testi), ed ero lì a prendere appunti: per la tesi, e per una ricerca che anche grazie a Adriano non si è mai conclusa, sul video e sull’oltre del cinema.

Quando venne Michael Snow al Festival di Pesaro. Quando i miei studenti affollavano il Salso Film e TV Festival. Prendiamo solo l’edizione 1986: Eshetu, Joan Logue, Godard, Rybczynski, Piavoli, De Bernardi, Segre, il Boulez di Cahen, il Dante di Greenaway… Ogni edizione era uno scrigno di tesori e anteprime che Adriano aveva scovato con pazienza e ostinazione e che ci donava, con quel suo passo svagato e lieve, come se fosse lì per caso.

Quando curava le retrospettive di Venezia, e quelle di Pesaro: con «Le avventure della non fiction» e «Il cinema e il suo oltre» (1996 e 97) ci ha spalancato gli occhi su capolavori anche sconosciuti, nell’arco di un secolo di cinema fuorinorma. Un incanto assoluto, e due volumi preziosi. Le sue scoperte e la sua curiosità si legavano allo scrupolo e al rigore nelle catalogazioni e pubblicazioni.

Quando Adriano portava il suo sguardo nei più diversi luoghi: dal mondo ai piccoli spazi, come la Camera Verde di Roma, che gli dedicò anche serate nella campagna di Piane di Bronzo, nel 2017, con lo schermo fra gli ulivi e lui a parlare di cinema nella silenziosa notte stellata per noi fortunati.

Quando mi scriveva lettere di carta: in due, fra le tante, mi pare di trovare la traccia di un metodo critico e di una scelta: «Non voglio sapere, voglio toccare. È l’unico modo di vivere a questo mondo: in tutti i sensi, in tutti i campi». E da New York: «Non sono forse io colui che va ad annusare perché gli altri facciano? Dreyer o Warhol? Rossellini o i videotapes?». Quando aveva poco più di trent’anni: era il 1972.

Non ha mai smesso, e gli dobbiamo tantissimo.

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Al cinema anima e corpo
di Fulvio Baglivi

Nella vita ho avuto tanti compagni, forse fin troppi per chi come me ama piccoli gruppi di affinità, teme le masse, come le mode e le linee.

Al contrario nel cinema, che costringe la mia passione in dinamiche di lavoro, davvero pochissimi e nessuno come Adriano Aprà. Adriano mi ha dato tutto senza chiedere né volere niente in cambio, uno scambio durato più di venti anni in cui ho preso senza riuscire a dare molto altro se non affetto e amicizia, un rapporto schietto e profondo nato grazie a Paolo Brunatto, come se fossimo al Filmstudio negli anni ’70. L’affinità c’era già allora, nel 2002: Rossellini Padre Nostro, l’underground italiano e americano, Godard come stella di riferimento, Huillet/Straub, Dreyer e Ford, Hawks, Welles, Citti, Grifi e De Bernardi, era chiaro che mi muovevo tra le mille traiettorie che Adriano aveva tracciato. Da quel momento, tutte le volte che ho incrociato cinema, autori o film che lui aveva già studiato mi sono ritrovato tra le mani risme di appunti, fotocopie, file, libri e la frase «io sono arrivato fin qui, vai avanti».

La retrospettiva dedicata a Piero Bargellini al Torino Film Festival nel 2006 è frutto della generosità di Adriano, così come il libro su Raffaele Andreassi edito dal Centro Sperimentale. La nostra amicizia si è solidificata intorno a Piero Bargellini e Marco Melani, con cui Adriano aveva condiviso un periodo nella sua casa di via del Governo Vecchio, quel «porto di mare» che aveva visto passare le migliori menti della sua generazione. Godeva della mia naturale adesione al concetto di «cineasta», che ha trovato in lui e Gianni Amico i precursori.

Cineasta è colui che si dedica al cinema «anima e corpo» senza fare differenze di ruoli o di professioni, una pratica che si esprime attraverso la creazione, la scrittura, la programmazione del cinema. Pochissimi in Italia hanno avuto la forza di seguire questa strada, invisa per natura all’industria e alle regole di produzione, del gruppo di pionieri restano Patrizia Pistagnesi e pochi altri, parte di questa teoria (che in realtà è solo pratica, è l’azione l’ideale!) rimangono nelle pagine di questo giornale e a Fuori Orario.
Forse anche per questo mi ha sostenuto per tutto, a volte mi è sembrato fin troppo, ha proiettato i miei film e si è donato ogni volta che gli ho chiesto di esserci nelle notti di Fuori Orario, le sue parole hanno aperto tante puntate. Rimandare in onda Olimpia agli amici, per via della presenza di sua madre e suo fratello Pierluigi, è stata la via per conoscere storie familiari, ricostruire i giorni dell’infanzia e della giovinezza. Negli ultimi anni il cinema era diventato collaterale nelle nostre discussioni, un po’ per una mia ipotesi di fare un film su di lui, ma soprattutto perché lo studio e le ricerche, sconfinate, di Adriano le avevo sottomano e sapevamo entrambi che sarebbero sopravvissute alla nostra amicizia. E poi è andata così, «troppo presto, troppo tardi» come sono il cinema e la vita.

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Nel corso del tempo, punto di riferimento ineguagliabile
di Luca Peretti

Nel 2005 uno scalcinato gruppo di ventenni – il più adulto arrivava a 24 – si mise in testa di creare un festival di cinema in una città conosciuta soprattutto per il fumetto, Lucca. Il budget era risibile, l’entusiasmo alle stelle. Si provava immeritatamente a far rivivere lo spirito cinefilo di una volta, di festival passati (Salsomaggiore, Porretta Terme, Pesaro delle origini) di cui non sapevamo molto. Poco parricidi, ci mettemmo alla ricerca di maestri, padri, fratelli maggiori e decidemmo di dedicare la prima edizione e ergere a spirito guida Marco Melani: critico cinematografico, organizzatore di festival e rassegne, una delle personalità più geniali del cinema italiano, morto neanche cinquantenne nel 1998.

Aprà era stato amico, sodale, collega di Melani, di quei rapporti che solo la cinefilia di un tempo sapeva forgiare. Lo invitammo e venne con entusiasmo, felice forse di vedere che a qualcuno a inizio anni duemila ancora interessava proiettare film di Ioselliani, Warhol, o recuperare quel Francesco Giullare di Dio di Rossellini tanto amato dalla critica cinefila italiana.

L’anno dopo, nel 2006, fu l’apoteosi del cinema sperimentale, con Kenneth Anger, Stephen Dwoskin, Tonino De Bernardi, tutti in presenza a Lucca, tutti autori in qualche modo frequentati da Aprà, che continuò in quegli anni a venire al festival e scrivere sui nostri cataloghi. Soprattutto, c’era quando avevamo bisogno di capire come andare avanti, cosa inventarci per l’anno seguente. Ricordo pranzi e cene al festival, noi con un immenso timore reverenziale, ad ascoltare decenni di cinema, e poi le presentazioni, le tavole rotonde, sempre con una generosità incredibile.

Nella terza edizione, quella del 2007, di comune accordo con Aprà e con Alfredo Rossi decidemmo di costruire una sezione del festival per omaggiare Cinema e film, la rivista ipercinefila nata, cresciuta e morta intorno al sessantotto (1966-1970), che ebbe un ruolo fondamentale nella cultura cinematografica del tempo. Di quella rivista un giovane Aprà fu direttore, dopo l’abbandono insieme a altri critici (Maurizio Ponzi, Luigi Faccini) Filmcritica di Edoardo Bruno. Andammo a casa sua a Laurentina a intervistarlo per il catalogo, ci accolse con una gentilezza unica, per molti di noi da Lucca a Roma Sud era un viaggio impensabile, ma ancor più impensabile era che dopo averlo invitato noi era lui adesso a ricambiare il favore e raccontarci cose successe quarantanni prima e che avevano influenzato in maniera decisiva la cinefilia e lo studio del cinema in Italia. Grazie Adriano, oggi come ieri.