Ci sono maestri e maestri. Maestri buoni e cattivi maestri, quelli che ti indicano la strada o te la fanno sbagliare, quelli che ne fanno una missione da libro cuore, maestri sadici alla Whiplash o simpatiche canaglie alla Jack Black in School of rock.
Lui era un maestro diverso da tutti gli altri. Innanzitutto non era un maestro, non in senso proprio almeno, perché l’insegnamento è stata una fase transitoria e tardiva della sua vita. Eppure maestro lo è stato per tantissimi di noi, perché la sua critica militante e i suoi festival hanno formato molte generazioni, anche anagraficamente lontane.

Aprà in “Satellite” di Mario Schifano

LUI NON AVEVA paura dei giovani, delle cose lontane, dei nuovi linguaggi, e anche quando è diventato vecchio studiava nel modo meticoloso e spugnoso di un ragazzino. Tra le mail che ci siamo scambiati, ne trovo una di pochi mesi fa in cui mi scrive che sta facendo una lista dei migliori film dell’anno per «Alias» – il supplemento del «manifesto» – e mi chiede i contatti di alcuni registi. Chi lo conosceva sa che il paragone non è insolente se dico che la felicità di Adriano nello scambiare film (e opinioni sui film) era quella di un bambino che scambia le figurine dei calciatori per il suo album. E se hai superato gli ottanta anni e sei una persona che di quei giocatori si ricorda ancora tutte le partite e i gol e ne vuole ancora tenere conto, questo è il dono più bello che ti possa fare la vita, o che tu possa fare alla vita, forse la seconda.

L’ho conosciuto alla fine degli anni Novanta, Adriano, anzi Aprà – tutti lo chiamavano solo per cognome, perché lui incuteva naturalmente rispetto col suo vocione da orco e la sua faccia seria che – per chi lo sapeva cogliere – dissimulava una smorfia o un sorriso. Era il direttore della Cineteca Nazionale e io ero una studentessa del Dams, stavo iniziando a pensare all’argomento della mia tesi e Lino Miccichè – che era il mio Professore di Storia del cinema – mi aveva proposto di studiare la rivista «Cinema & Film» che Aprà aveva fondato negli anni Sessanta insieme a Franco Ferrini, Maurizio Ponzi e altri, sulla scia dell’esperienza francese dei «Cahiers du Cinéma», per imporre anche da noi una politica degli autori: da Ford a Rossellini, da Hitchcock a Carmelo Bene a Jean Marie Straub, per il quale aveva anche recitato ieratico nel film Othon – gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi. Una rivista che ha fatto storia, anche se è vissuta pochissimo. Alla fine mi ha regalato la collezione originale, l’ultima in suo possesso, ne mancava un numero che aveva fotocopiato per me.

QUESTI SONO STATI i nostri primi incontri, nella stanza del direttore della Cineteca, lui maestro io allieva, nel fumo di mille sigarette fumate di nascosto e di giovanili amori cinefili. Da lì, visto che la tesi deve essergli piaciuta, Adriano mi ha chiamata in varie occasioni a lavorare con lui. Piccoli incarichi alla Cineteca, cataloghi e rassegne, articoli per la rivista del Centro Sperimentale, sino agli studi monografici per il festival di Pesaro: Olmi, Lattuada, Bellocchio…

Ma il primo lavoretto che mi ha chiesto di fare è stato quello di leggere e trascrivere i suoi amati quaderni. Dei quadernetti rossi custoditi gelosamente, dove aveva annotato e recensito nella sua grafia minuziosa tutti i film visti nei tardi anni Cinquanta, il giorno e il cinema appuntati a margine. I suoi grandi amori di gioventù? Howard Hawks e Max Ophüls.
Mi prestava Vhs di film introvabili, libri fuori catalogo. Non era geloso del suo sapere. Normale, si dirà. E invece no, al contrario di quanto si pensi la ricerca è raramente un territorio di scambio e apertura: più spesso la ricerca si basa sullo stabilire confini, il mio campo va da qui a qui, il tuo da qui a lì, e così via, non si può invadere. E invece Adriano sconfinava sempre, diffondeva, contaminava, forzava le norme e forse per questo non è mai stato un vero accademico, anche se tardivamente l’hanno chiamato a insegnare, e alla fine qualche amarezza l’accademia gliel’ha lasciata.

La redazione consiglia:
La guida nella scoperta del cinema undergroundUltimamente Adriano mi ha contestata pubblicamente, al festival di Pesaro, per uno studio che secondo lui era impreciso e fuori fuoco, una ricerca superficiale, che si accontentava, diceva. Mi ha contestata con una rabbia giovane, una rabbia che condivideva con Lino, l’amico che ci aveva fatti incontrare. Una volta che il bagno dei professori era fuori uso e aveva visto in che condizioni versavano quelli degli studenti, Lino Miccichè era entrato in aula e ci aveva esortato: voi dovreste occupare l’Università, ecco cosa dovete fare.

CONDIVIDEVANO lo stesso metodo, e come Aprà, Miccichè ci ha fatto studiare Pasolini e Antonioni inquadratura per inquadratura, ogni movimento di macchina mandato a memoria. A cosa serviva questo sforzo minuzioso, i dettagli, le liste infinite? L’ho capito solo dopo, che conoscere a fondo i meccanismi non offuscava la bellezza di quelle opere ma la moltiplicava. Se conosci le combinazioni e la cura che Tiziano ha impiegato per ottenere quel rosso, amerai ancora di più la sua Venere. La vedrai con il cuore e con la testa. Quei dettagli servivano a gioire, proprio come le discussioni infinite, le cene in pensione completa all’Hotel Savoy di Pesaro, le ubriacature definitive, le scale mobili al Centre Pompidou in attesa di una proiezione, le telefonate, le cene con Stefania, le risate col suo vocione grave, le sigarette, tantissime sigarette, i libri prestati, i Vhs numerati e schedati, a centinaia. È quello che mi ha insegnato, l’amore per il cinema, per la ricerca e per la vita, e a lasciargli sempre l’ultimo tiro.

Ho seguito la sua strada, ma poi ho deviato, me ne sono andata per altri campi a scorrazzare, ho smesso di fare ricerca. Però ho conservato il dono della curiosità, ho imparato a studiare con precisione, a godere delle cose belle con il cuore e con la testa, e ad arrabbiarmi, arrabbiarmi tantissimo se non sono d’accordo, a difendere le mie scelte, i miei partiti presi, e magari qualcuno un giorno lo imparerà da me. Perché, come scriveva Salinger, l’insegnamento è un magnifico accordo reciproco. E non è istruzione. È storia. È poesia.