C’è aria di Ramadan al Cairo. Lungo le sopraelevate che legano i quartieri, sopra le piazze dall’architettura caleidoscopica – antica bellezza, decadenza, modernità e stile sovietico – svettano i cartelloni pubblicitari delle emittenti tv. Gli attori delle serie sorridono a passanti e automobilisti, un classico del mese sacro. Il modo per ritmare il tempo in famiglia in attesa del primo dattero che al tramonto rompe il digiuno.

Il Ramadan arriverà anche a Gaza, e non è la prima volta che capita nel pieno di un’offensiva israeliana.

Successe nell’estate 2014 con Margine Protettivo. Per dieci anni quell’operazione è stata considerata un apice irraggiungibile di violenza. Quella attuale l’ha stracciata. Sarà un Ramadan di fame a Gaza.

«UNA COLLEGA epidemiologa è rimasta a vivere a nord. Nutre i quattro figli con tre cucchiai di mangime per animali al giorno». La voce è quella di Helen Ottens-Patterson, responsabile dell’Unità di emergenza a Gaza di Medici senza Frontiere. Si rivolge alla carovana solidale arrivata dall’Italia, organizzata da Aoi (Associazione delle Ong italiane) con Arci e Assopace. Quattordici deputati di Avs, Pd e M5S, decine di giornalisti e rappresentanti dell’associazionismo italiano.

Helen Ottens-Patterson, responsabile dell’Unità di emergenza a Gaza di Medici senza Frontiere
«Una collega epidemiologa è rimasta a vivere a nord. Nutre i quattro figli con tre cucchiai di mangime per animali al giorno»

È la prima volta che le autorità egiziane autorizzano una delegazione simile a mettersi in marcia verso il valico di Rafah. È quella la destinazione, scorta politica agli aiuti ma soprattutto alla richiesta che giunge dalle società civili globali: cessare subito il fuoco.

Il Cairo è la prima tappa. Fa già caldo, il cielo è opaco. A ovest la strada è segnata dai tanti progetti infrastrutturali che modellano le politiche interne.

Poi appaiono i tratti di una storia antichissima. Nel quartiere Zamalek le librerie ambulanti si nascondono tra hotel maestosi. Tra i libri, anche i versi del poeta nazionale palestinese, Mahmoud Darwish. C’è anche «Ritorno ad Haifa», di Ghassan Kanafani.

LA CAROVANA raccoglie le testimonianze delle ong palestinesi e le agenzie Onu. Con la cadenza di una supplica, la fame ritorna in ogni racconto, accanto all’incredulità per una crisi senza precedenti.

«I nostri camion sono presi di mira, cerchiamo disperatamente di consegnare aiuti a nord. Siamo riusciti a compiere solo 12 missioni – spiega Sahar al Jobury, la responsabile di Unrwa in Egitto – Siamo un punto di riferimento. Quando la gente ha fame, viene all’Unrwa. Quando è arrabbiata, protesta con l’Unrwa. Eppure ci stanno delegittimando. Anche in Cisgiordania e a Gerusalemme est: Israele ha bloccato i conti, limita i nostri movimenti, non riconosce visti allo staff internazionale».

La paura, più che concreta, è che il taglio dei fondi deciso da 16 paesi occidentali provochi un’implosione definitiva. Perché è Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che coordina le attività delle altre: «È la spina dorsale dell’assistenza, la fornisce e facilita il lavoro altrui – aggiunge Adnan Abu Hasna, portavoce di Unrwa nella Striscia, appena uscito da Rafah, lasciandosi dietro casa sua – Ci occupiamo anche di distribuire le quantità limitate di carburante a ospedali e panetterie».

LE PANETTERIE, quelle ancora in piedi. Sono pochissime. E gli aiuti arrivano col contagocce, troppo scarsi e troppo lenti, a volte troppo pericolosi se è il fuoco a disperdere gli affamati.

È in tale contesto che ieri il ministro degli esteri Tajani ha lanciato, sulle colonne de La Stampa, l’idea di un’iniziativa umanitaria, “Food for Gaza”, invitando a Roma «tutti gli attori del polo delle Nazioni unite», mentre rivendica i tagli all’Unrwa, anche in assenza di prove – mai consegnate da Israele – sul presunto coinvolgimento di 13 dipendenti nell’attacco del 7 ottobre.

Punizione collettiva, la chiamano in tanti. E tanti insistono: serve aprire i valichi, ma soprattutto cessare il fuoco. Alfio Nicotra, co-presidente di Un Ponte Per, risponde a Tajani dal Cairo: «Può essere una buona notizia ma necessita di una più attiva iniziativa del nostro paese per l’immediato cessate il fuoco. E serve il coinvolgimento delle ong italiane che invece non sono citate dal ministro».

«L’IDEA andrà esplorata – gli fa eco Laura Boldrini (Pd) – A Gaza servirà una massiccia operazione di ricostruzione. L’Italia giochi un ruolo ma lo deve fare con tutti gli attori, Onu, Croce rossa e Mezzaluna e ong italiane che lavorano in Cisgiordania e a Gaza».

«Serve prima il cessate il fuoco – aggiunge Stefania Ascari (M5S) – Poi tutti i valichi vanno aperti». «Gli aiuti ci sono ma sono bloccati a Rafah – dice Nicola Fratoianni – Se non entrano, questo ottimo auspicio rischia di ridursi all’ennesima operazione virtuale». «Bene che l’Italia svolga un ruolo sul fronte umanitario ma senza un’iniziativa di carattere politico questo sforzo rischia di essere frustrato», conclude Andrea Orlando (Pd).

LA CAROVANA si muove, accompagnata dalle parole di Yousef Hamdouna, cooperante di Gaza. Un viaggio così, in un autobus che ha il sostegno dell’ambasciata italiana, non l’aveva fatto mai. Passare dall’Egitto per tornare a casa era una via crucis: costi enormi, giorni e notti in una stanza sotto terra in attesa che il valico di Rafah aprisse.

«Oggi la mia famiglia è riunita in una sola casa, sono 57. Non hanno abbastanza da mangiare. Al telefono con me, si vergognano a lamentarsi: almeno non stiamo in una tenda, siamo fortunati. Abbiamo ancora un tetto sulla testa».