Il Far East Film Festival numero 17 si è aperto nel nome di una alleanza inconsueta tra Jackie Chan and John Cusak - Lucius, impegnati contro il console Tiberio -Adrien Brody nello spettacolare Dragon Blade di Daniel Lee. Rifacendosi a una antica leggenda secondo la quale una legione romana si sarebbe persa nel deserto del Gobi, la squadra comandata da Chan che pattuglia la Via della Seta, si scontra coi Romani, ma dal conflitto si passa presto a un ragionevole incontro multiculturale, fatto di reciproco rispetto.

I guerrieri cinesi, impegnati a mantenere la pace sulla via della seta, lungo la quale vivono etnie e tribù ostili tra loro, devono ricostruire le mura di una città di frontiera e riescono nell’impresa con l’aiuto dei romani, che condividono con loro tecniche e cultura, nel nome di un’alleanza contro Tiberio, che col suo esercito vorrebbe impadronirsi della Via della Seta. Il messaggio pacifista di fondo comunque non impedisce un’esibizione massiccia quanto spettacolare di arti marziali, in tutte le varianti, con l’avvertenza che Chan ora nei film non uccide più i suoi rivali.

Presentando il film al pubblico udinese la star hongkonghese ha raccontato la difficile lavorazione nel deserto del Gobi e l’esperienza del set, conquistando la simpatia anche dei più refrattari. Allo stesso Chan è stato dedicato uno spazio retrospettivo, recuperando uno dei suoi film più popolari, The Young Master (1980), acrobatico e comico kung fu d’annata. Il festival infatti propone anche dei momenti retrospettivi, tra i quali apprezzatissimo The Tragedy of Bushido (Morikawa Ettaro, 1960), storia di un giovanissimo aristocratico costretto a suicidarsi per rispetto della morte del suo capo, cui la cognata, che lo ha allevato, decide di offrire l’esperienza più vitale – fare all’amore sulla spiaggia dove passeggiava con lei da bambino. Fotogrammi fissi a interrompere l’azione con dialoghi fuori campo, finte soggettive in cui la panoramica ci riporta al soggetto che guarda, soggettive con immagini in rapido movimento, macchina a mano: una sperimentazione del linguaggio che ben si concilia con il melodramma raggelato di una società in cui regole e codici d’onore e comportamento sono più forti di qualsiasi istinto vitale. Una Nouvelle vague giapponese sorprendente quanto affascinante.

Per quel che riguarda il cinema cinese contemporaneo, grande spazio ai racconti di amori e amicizie giovanili che la realtà della vita adulta mette a rischio, come in Women Who Flirt, tra Cina e Taiwan, o che stronca impietosamente in My Old Classmate (tra New York e la Cina), un genere questo che può contare su una schiera di giovani e avvenenti attori e attrici, ma anche su momenti di riflessione non sciocca, che riscattano gli affondi in un passato dai colori vivaci e dalla zuccherosità al limite della tolleranza diabetica.

Mentre il primo si allinea al cinema comico-sentimentale per ragazze, il secondo gioca tra memoria individuale e collettiva (l’attacco all’ambasciata cinese a Belgrado, le torri gemelle, l’epidemia di SARS), ma del tutto a favore della prima, come se, per i due protagonisti, non capire l’impatto di questi eventi, tutti chiusi come sono nel loro sogno americano di studiare a Stanford, non produca affatto il successo sperato, ma l’infelicità. Meno edulcorati i sogni giovanili dei personaggi dell’intenso Kabukicho Love Hotel (Iroki Ryuichi) che intreccia le vicende di coloro che lavorano o frequentano un Love Hotel (albergo a ore) al centro di Shinjiuku, tra prostitute coreane e giapponesi, aspiranti cantanti, minorenni in fuga, criminalità e giovani sfuggiti allo tsunami, che cercano di costruirsi un futuro.
Secondo una convenzione piuttosto diffusa quest’anno il film riprende dopo i titoli di coda con un finale che si apre alla speranza, o quantomeno alla volontà di crederci.