Dopo i terribili attentati di lunedì a Baghdad (77 morti è il bilancio definitivo delle quattro esplosioni nei quartieri sciiti) e della settimana scorsa (oltre 150 vittime), la minacciata ripresa delle armi è realtà. Già giovedì scorso la rabbia popolare si era riversata nella capitale: la comunità sciita ha accusato direttamente il governo di incapacità a fermare lo Stato Islamico e promesso di difendersi da sè.

Ieri si è verificato quanto temuto dal governo: centinaia di miliziani delle Brigate della Pace del religioso al-Sadr sono stati dispiegati nelle zone sciite di Baghdad insieme a posti di blocco dove uomini e donne vengono perquisiti prima dell’ingresso in aree affollate.

La chiamata – più o meno diretta – era giunta dallo stesso al-Sadr che indica nell’esecutivo del premier al-Abadi il responsabile dell’assenza di difesa della città. L’immediata misura assunta dal governo – l’arresto dell’ufficiale responsabile della sicurezza in uno dei quartieri colpiti, al-Shaab – non è bastata alla gente che conosce bene la superficialità dei controlli dell’esercito e la scomparsa di milioni di dollari destinati alla sicurezza nelle pieghe della corruzione.

I miliziani a bordo di pickup e armati di fucili automatici non spegneranno la crisi politica in corso, ma aumenteranno le tensioni, in particolare quelle interne al blocco sciita. Ma a preoccupare i partiti iracheni, sunniti e sciiti, è il carisma che al-Sadr porta con sé e che sta attirando anche sunniti ed ex-baathisti, tentando la via del movimento nazionale.

Il premier al-Abadi, da parte sua, non può mettere sul tavolo risultati: nonostante le vittorie archiviate (ieri l’ultima, la liberazione della città di Rutba nella provincia di Anbar), non sa porre fine alle violenze nei territori dove l’Isis – in teoria – non c’è.