Non sono un grand tourist. In genere vado all’estero per qualche necessità: lavorare, presentare libri, incontrare attivisti. Il pretesto per attraversare il confine elvetico è quello di discutere del tema dell’amianto, in vista del rinvio a giudizio del magnate della Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny.

L’effetto collaterale è quello di un confronto diretto con alcuni circuiti di nuova e vecchia emigrazione italiana. In anni di retoriche di «fughe di cervelli» e di «expatriate», gli italiani che ho incontrato in Svizzera sono ancora emigrati.

Ben connessi però, in una realtà globalizzata, alle vicende politiche italiane. Seguono da vicino la situazione del referendum, hanno appena ricevuto una lettera da Renzi, una visita di Boschi e la scheda per votare.

A ORECCHIO SONO FAVOREVOLI al No. Il Sì implicherebbe non poter più votare per il Senato dalle circoscrizioni estere. E sono tanti, come ai tempi di Pane e cioccolato. Con alcune differenze, certo. Aumenta la scolarizzazione media, ma solo perché è aumentata un po’ ovunque. Il mito di un brand italiano di ricercatori da esportazione, però, è poco più che una bufala.

Non diminuisce il razzismo: un vecchio emigrato racconta che un compassato quotidiano svizzero descrisse la giustizia italiana, ai tempi delle condanne del patron della Eternit, come un sistema dittatoriale. Con le prescrizioni recenti, avrà forse cambiato idea.

Anche a Zurigo, dove mi ospitano italiani che lavorano da professionisti, la base logistica viene però dal mondo operaio. I locali appartenevano al partito comunista spagnolo in esilio, costretto alla clandestinità da Franco.

È curioso che anche nella Svizzera democratica quel partito dovesse evitare il termine «comunista», per un divieto del Consiglio federale che risaliva agli anni Quaranta. Ancora oggi vecchi e nuovi emigrati, con un felice connubio di spagnoli e italiani, tengono aperta questa casa carica di memorie operaie, piena di libri sulla guerra civile spagnola e di fotografie di Berlinguer.

Gli anziani hanno fatto lavoro di base per dare coscienza e aiuto ai «lavoratori ospiti» che alloggiavano nelle baracche, fino agli anni Ottanta. Nella sala-riunioni campeggia una foto del Che Guevara e uno striscione dell’Inter.

A BERNA LA SITUAZIONE è ancora più stratificata: sul palco intervengono sindacalisti, operai di origine italiana e altri svizzeri germanofoni, come un pensionato che dà una testimonianza toccante del suo lavoro a contatto con l’amianto.

C’è chi fa il ricercatore, chi l’ha fatto in passato e adesso si arrangia coi lavoretti. C’è chi fa la traduttrice e chi lavora nei ristoranti, chi fa le pulizie e chi è assunto nei call centre ticinesi.

In genere, i lavori non qualificati sono quelli che spiccano di gran lunga, ma sono poi quelli accademici, perlopiù a termine, gli unici che vengono raccontati sui giornali.

In realtà, gli italiani arrivano a frotte e alcuni sono costretti a tornare indietro.

03ultimaf02 svizzera pane e cioccolata
C’È CHI SI FA PRESTARE 4mila euro dai parenti e li brucia in poche settimane di ostello, senza riuscire a trovare nulla, senza sapere dove sbattere la testa.

C’è quello che fa il frontaliero e quello che ha un contratto all’università e torna a casa il venerdì notte, dopo sette ore di treno.

Saranno anche cervelli in fuga, ma ricordano il nomadismo esasperante dei trasfertisti industriali del passato.

C’è chi, come Mauri, è nato e cresciuto in questo cantone ma non ha mai avuto diritto alla cittadinanza. Naturalizzarsi era costoso e tutt’altro che automatico: bisognava passare attraverso una sorta di referendum di quartiere, col rischio di pagare una cifra ingente e di ricevere poi un rifiuto.

Mi racconta la storia di una famiglia turca. I turchi qui sono tanti: comprano e gestiscono i ristoranti italiani e per questo li chiamano i «finti italiani».

A UN NUCLEO FAMILIARE TURCO pare sia stato riconosciuta, dopo il mini-plebiscito di quartiere, la nazionalità a tutti i membri tranne che al figlio piccolo, troppo vivace a scuola.

Mauri racconta del razzismo scolastico negli anni Novanta, con i figli degli italiani stigmatizzati perché non sapevano bene il tedesco. Oggi Mauri è un ottimo interprete e ha collaborato con l’università. Nonostante tutto, vive nel paese in cui è nato con un permesso di soggiorno. Un ragazzo calabrese mi dice che dalla sua città ci sono continue partenze verso l’estero. Un altro si lamenta per aver garantito per un connazionale che poi gli ha fatto fare una figuraccia. «Ormai dicono che sono più affidabili i portoghesi degli italiani».

Più che cervelli in fuga, i lavoratori migranti sono imbianchini e manovali, fanno le pulizie nelle scuole e negli ospedali. E patiscono l’onda lunga del razzismo, come dimostra il referendum sui frontalieri nel Ticino, che serve a disciplinare la forza lavoro straniera e a abbassarne i costi.

CI SONO PERÒ BUONI SEGNALI. Il circolo culturale di Berna è frequentato anche da svizzeri germanofoni, che danno una mano e partecipano alle iniziative.

Tengono aperta la propria società agli stranieri, evitando di chiuderla nella morsa della paura e dell’ossessione razzista e securitaria. E mentre vedo spegnersi le luci di Berna, penso a quel granchio preso dal ministro Gelmini che parlò di un tunnel sotterraneo dal Gran Sasso alla Svizzera.

Forse quel tunnel esiste davvero, almeno come metafora. Ogni africano sfruttato a Rosarno, è un italiano sfruttato a Zurigo. Ogni invettiva xenofoba a Milano, è un boomerang che colpisce in Ticino e torna addosso agli emigrati italiani.

Ogni protesta a Roma contro il razzismo, è una stretta di mano con gli attivisti elvetici. Le nano particelle dell’odio e della solidarietà viaggiano alla velocità del trasporto dati, nell’era del wi-fi.

È una sorta di effetto farfalla: in un mondo connesso, chi a Goro semina il vento dell’intolleranza, addensa tempesta sulla testa di milioni di italiani all’estero, tra Zurigo e Londra. Brexit docet.