Si rivelano utili e fertili i cortocircuiti temporali della distribuzione cinematografica italiana, capace di recuperare dopo decenni opere capitali. Proprio in questi giorni possiamo gustare su grande schermo La tomba per le lucciole di Isao Takahata, prodotto dallo Studio Ghibli nel 1988 e approdato nelle nostre sale grazie alla Koch Media. Occasione senza dubbio irripetibile, nonché ottimo punto di (ri)partenza per tracciare un percorso attraverso quella produzione animata nipponica intimamente e intrinsecamente legata alla Seconda guerra mondiale, all’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki, alla difficile ricostruzione economica, sociale, politica e morale del dopoguerra.
Figli della Guerra e della Bomba, Takahata, Miyazaki, Nagai, Ōtomo, Oshii, Tomino e Matsumoto sono tra i nomi più significativi di una generazione di disegnatori, animatori e registi che hanno dovuto fare i conti con uno spettro incancellabile. Partendo in alcuni casi da esperienze personali, vissute per lo più in tenera età, gli autori dell’industria degli anime hanno plasmato tratti grafici e narrativi per rielaborare ed esorcizzare l’orrore e la lunga onda d’urto delle molteplici conseguenze.
La filmografia di Isao Takahata, dagli esordi degli anni Sessanta alla Tōei Animation fino all’apoteosi dello Studio Ghibli, è intrisa di riflessioni storiche e politiche, percorsa da un afflato ecologista, da sempre legata all’osservazione della quotidianità. Protagonista della stagione più felice del World Masterpiece Theater, serie televisive ispirate alla letteratura per ragazzi come Heidi, Marco – Dagli Appennini alle Ande e Anna dai capelli rossi, Takahata non ha mai dimenticato un traumatico episodio della propria infanzia: «avevo dieci anni, vivevo in una città di media grandezza che si chiamava Okayama. Nel 1945 è stata anche bombardata… Era il 29 giugno. Poi, il 15 agosto, il Giappone si è arreso. Ma quel giorno di fine giugno una pioggia di fuoco ha colpito la mia abitazione e mi sono trovato in mezzo all’inferno. Io e mia sorella, che era più grande di me, ci siamo separati dai nostri genitori non sono riuscito a rivedere i miei genitori per due giorni. Ero piccolo, cercavo i loro cadaveri, non credevo proprio di ritrovarli vivi» (intervista tratta da The Art of Emotion. Il cinema d’animazione di Isao Takahata di Mario A. Rumor, Guaraldi-Cartoon Club, Rimini 2007, p. 239). Il distacco dai genitori, la disperata ricerca, la perdita, il lutto: La tomba delle lucciole non è Dagli Appennini alle Ande, non c’è ricongiungimento, non c’è lieto fine. Il tempo di guerra raccontato da Takahata non guarda ai campi di battaglia, ma osserva da vicino e con rigoroso pudore la drammatica quotidianità dei bambini, delle famiglie spezzate, del tracollo morale di una nazione piombata nel caos. Con una lucida, dolorosa e onesta struttura narrativa circolare, La tomba delle lucciole ci mette fin dalla prima sequenza di fronte al fatto compiuto, alla tragedia, alla morte dei due piccoli protagonisti Seita e Setsuko. Quattordici e quattro anni.
Storico collega di Takahata e cofondatore dello Studio Ghibli, Hayao Miyazaki ha abbracciato la fantascienza post-apocalittica con la serie televisiva Conan, il ragazzo del futuro e con la pellicola Nausicaä della Valle del vento, opera seminale ghibliana che è uscita nelle sale italiane a inizio ottobre con la Lucky Red. Un altro buco distributivo finalmente colmato.
La science fiction miyazakiana, virata verso il fantasy con Nausicaä, immagina possibili futuri di pace e prosperità dopo i disastri nucleari. In Conan, il ragazzo del futuro gli esseri umani, accecati dalla corsa al progresso e alla conquista, hanno divelto la crosta terrestre, fatto affondare continenti, sfiorato l’estinzione. Lo scenario di Nausicaä della Valle del vento, che riecheggia Moebius e Frank Herbert, si muove nella stessa direzione, calcando ancor più la mano sulla componente ecologista: a braccetto con le posizioni pacifiste, il rapporto tra l’uomo e la Natura è uno dei temi trasversali dell’animazione del Sol Levante, unica strada possibile per tenere a bada gli orrori e i fantasmi del passato. Il ritorno alla Natura, o quantomeno una parziale riconciliazione, è l’asse portante della poetica umanista miyazakiana, più solare rispetto agli scenari catastrofici e distopici delle produzioni degli anni Settanta e alle opere del decennio successivo, spesso di derivazione cyberpunk.
Il misurato ottimismo miyazakiano trova un cupo contraltare nelle space opera di Leiji Matsumoto, mangaka e animatore che ha creato nel corso degli anni e dei disegni un complesso universo narrativo, visceralmente legato allo spettro del bombardamento nucleare e alle icone malefiche Little Boy e Fat Man. Nella serie televisiva La corazzata Yamato e nel successivo adattamento cinematografico Corazzata spaziale Yamato la Terra è inizialmente martoriata dai meteoriti radioattivi di una razza aliena, mentre la Yamato del titolo è la celebre nave da battaglia della Marina imperiale giapponese, rimessa a nuovo e trasformata in un’invincibile nave spaziale; nella serie Capitan Harlock, realizzata tra il 1978 e il 1979, una gigantesca e misteriosa sfera nera precipita sulla Terra causando disastri e incastonandosi minacciosa tra le macerie di una città; nella fluviale serie Galaxy Express 999, come nelle ottime riduzioni per le sale Galaxy Express 999 – The Movie e Addio Galaxy Express 999 – Capolinea Andromeda, il pianeta Terra è schiavo di una ristretta e spietata oligarchia robotica, mentre gli esseri umani vivono in condizioni estreme e l’unica speranza è rappresentata dalla fuga sul treno spaziale. L’universo matsumotiano è abitato da eroi solitari, nazioni e istituzioni colpevoli e corrotte, folli conquistatori assetati di distruzione; la Terra è un punto di riferimento sempre più distante, un luogo che non si può più difendere e che bisogna abbandonare, cercando un possibile futuro nel Cosmo, tra le stelle.
La difesa della Terra, in particolare delle città del Giappone, è il leitmotiv delle storie per il piccolo e grande schermo tratte dai manga di Gō Nagai, protagonista assoluto delle serie robotiche dei primi anni Settanta. Robot giganti, anzi robottoni, avveniristici samurai d’acciaio che puntata dopo puntata, giorno dopo giorno, si caricavano sulle spalle il destino dell’umanità. Tra le pieghe delle reiterate battaglie di Mazinga Z, Il Grande Mazinga, Ufo Robot Goldrake, Getter Robot e Jeeg robot d’acciaio si celano i prodromi della fantascienza cyberpunk, della fusione tra carne e metallo, delle varie metamorfosi post-atomiche – non più, o non solo, Godzilla, Gamera e gli altri fantasiosi mostri mutanti dei kaijū eiga, ma esseri umani che diventano altro, new type pericolosi, a volte uomini nuovi e migliori.
Nell’evoluzione dell’estetica robotica, da Mobile Suit Gundam di Yoshiyuki Tomino a Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno, passando per il progetto multimediale Patlabor di Mamoru Oshii e del collettivo Headgear, il realismo tecnologico e militare prende il sopravvento sui combattenti variopinti di Nagai, sulle città distrutte ogni giorno. Le metafore dell’atomica e della guerra si fanno più sofisticate, dai rimandi a Heinlein di Tomino alle suggestioni minimaliste e filosofiche di Anno. La Bomba non è più una minaccia esterna, ma è dentro di noi, siamo noi: è Akira di Katsuhiro Ōtomo, irripetibile vertice produttivo e artistico dell’animazione cyberpunk. I figli della bomba sono bombe ancor più devastanti.
Il passo definitivo lo compie probabilmente Mamoru Oshii con The Sky Crawlers – I cavalieri del cielo e i suoi combattenti destinati a una circolarità atroce, a un moderno supplizio di Prometeo. Una rilettura asettica e senza via d’uscita delle pagine di Guerra eterna di Joe Haldeman. La guerra è diventata un gioco e si è lasciata dietro le spalle qualsiasi considerazione etica e morale. Nemmeno l’orrore riesce più a risvegliare le coscienze.
La circolarità, anche se di segno diametralmente opposto, ci riporta inevitabilmente a La tomba delle lucciole e alla storia del Giappone presa di petto. Sono gli anni del dittico Barefoot Gen di Mori Masaki e Barefoot Gen 2 di Toshio Hirata, che mostrano gli effetti devastanti di Little Boy, ma che riescono anche a trovare una scintilla di speranza tra cadaveri carbonizzati, cenere e macerie. Il nostro percorso nell’animazione nipponica figlia della Guerra e della Bomba si chiude con un passo indietro, che è anche un passo in avanti. Ed è forse l’ultimo. Si alza il vento di Hayao Miyazaki, un testamento poetico che è idealmente un prequel de La tomba delle lucciole: la preparazione del conflitto, la costruzione delle armi, la negazione dell’utopia miyazakiana. La guerra entra nei nostri sogni, che diventano incubi.