La china sessista presa dalla Turchia nei 14 anni di dominio dell’Akp, il partito del presidente Erdogan, ha raggiunto livelli preoccupanti. Con i casi di stupro e pedofilia in costante aumento le soluzioni individuate dalla classe dirigente turca sono l’ultimo chiodo nella bara dei diritti di donne e bambini.

A scatenare le polemiche, pochi giorni fa, è stata la decisione della Corte Costituzionale di cancellare l’articolo 103 della Costituzione, che punisce gli abusi sessuali sui minorenni. Per l’Alta Corte turca sarebbe erroneo porre sullo stesso piano il rapporto sessuale con un minore di 12 anni e quello con un minore tra i 12 e i 15 anni. Quest’ultimo sarebbe in grado di dare il proprio consenso. Nessuno stupro, dunque, ma un rapporto consensuale che apre la strada – nella pratica – alla legalizzazione della pedofilia.

In particolare la sentenza (approvata con 7 voti a favore e 6 contrari) abolisce il comma 1 dell’articolo 103 per «motivi legali tecnici» e per l’assenza di «gradualità» della pena. E se la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ha subito provocato le reazioni europee, è in Turchia che il dibattito è più duro: «Ogni individuo sotto i 18 anni è considerato un bambino dalle convenzioni internazionali – spiega Bahar Gokler, presidente dell’Association to Prevent Child Abuse – Andare in cerca del consenso di un bambino nel caso di un abuso sessuale è fuori questione».

Va giù pesante anche la nota attivista Canan Güllü, leader della Federazione delle Associazioni delle Donne, pronta a trascinare il caso di fronte alla Corte Europea per i diritti umani: «Questa decisione porterà a matrimoni forzati», ha detto.

La Corte ha provato a chiarire: si tratta di una misura provvisoria che entrerà in vigore a gennaio, dando tempo al parlamento di tappare il gap legislativo sulla questione. Nella pratica, cioè, di individuare pene diverse a seconda dell’età del minore.

Oggi la violenza su un bambino con meno di 15 anni viene punita con il carcere da 8 a 15 anni. In teoria. Perché non sono affatto pochi i casi di “matrimoni riparatori” per salvare lo stupratore dalla prigione: il capo del dipartimento della Corte Suprema d’appello responsabile per i crimini di natura sessuale, Mustafa Demirtag, ha recentemente reso pubblici i dati sui matrimoni nati da uno stupro, tra la vittima e il suo aguzzino. Circa 3mila, ufficialmente registrati negli ultimi anni.

Un dato che fa il paio con quello dell’Università di Gaziantep: un matrimonio su tre coinvolge una persona con età inferiore a quella di legge, 18 anni. E potrebbero aumentare, avvertono le associazioni che tutelano i bambini, dopo una simile sentenza. I dati parlano da soli: se nel 2010 i casi di pedofilia denunciati alle autorità erano 16.135, nel 2015 sono saliti a 17mila.

«Ci sono 181mila spose bambine nel nostro paese – spiegava a dicembre dello scorso anno Nuriye Kadan, dell’Associazione degli Avvocati di Smirne – E il numero potrebbe essere più alto: molti di questi matrimoni sono celebrati solo di fronte all’imam e non ufficialmente registrati dalle autorità civili».

181mila bambine private dell’educazione scolastica, residenti in zone povere dove alcune famiglie vedono nel matrimonio la via d’uscita alle proprie difficoltà economiche. Per questo immediata è la levata di scudi della società civile che vede nella decisione della Corte la chiusura del cerchio.

Basta scorrere i dati sulle violenze sessuali e le pezze legislative messe dal governo Akp per comprendere il contesto. A gennaio il parlamento turco ha creato una commissione ad hoc per investigare su quello che ritiene un allarme sociale: l’aumento dei divorzi. Per attivisti e analisti una non-questione: il tasso di divorzi è pari all’1,7% l’anno, contro il 7,7% di matrimoni. Tanto basta, però, alle politiche machiste turche per intervenire.

La commissione parlamentare voluta dall’Akp, infatti, individua potenziali misure che nulla hanno a che fare con il divorzio: abbassare l’età minima per contrarre matrimonio da 18 a 15 anni (battezzata ironicamente dagli oppositori «Sposa il tuo stupratore») e permettere a chi ha avuto rapporti con un minore di sposarlo ed evitare l’accusa di pedofilia se nei 5 anni successivi non si registreranno altri casi di violenza.

Dal rapporto presentato manca quasi del tutto la violenza domestica sulle donne, in costante aumento. Eppure dal 2010 al 2015 sono stati 1.134 i femminicidi nel paese.

In tale contesto il decreto legge del 26 luglio scorso che introduce la castrazione chimica per i condannati per stupro viene letta dai critici come un ulteriore strumento di cancellazione dei diritti umani. Non farà da deterrente contro le violenze sulle donne né tutelerà in alcun modo chi le ha subite, violando allo stesso tempo l’etica medica.